Intervista a Giancarlo Cabiddu

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Intervista a Giancarlo Cabiddu


“Nel film si dice tanto, quasi tutto: in realtà siamo stati un po’ spudorati, abbiamo buttato dentro tutto quello che c’era dentro il cuore.” Queste le parole che Giancarlo Cabiddu ha usato per descrivere lo spirito con il quale è stato creato “Passaggi di Tempo”. La creazione di un limbo tra finzione e documentazione che conferisce al film, allo stesso tempo, l’andamento del documentario, con le scene rubate alla vita dei musicisti, con le immagini di archivio, e la finzione scenica delle scene ricostruite. Come spiega ancora Cabiddu, “Proprio per questo per me è stato importante ricostruire la scena di Paolo Fresu con il padre: si percepisce come scena naturale, poetica, piena di dolcezza e si vede, a partire dalle mani di un uomo che ha lavorato, con le mani, per tutta una vita, la sensibilità di tramandare, di salvare le parole in un sacchetto e farle arrivare al figlio in maniera naturale e non retorica”.



JC: Partiamo dalla storia di questo film, che per molti aspetti è un documentario, dalle motivazioni che ti hanno spinto a mettere in piedi il discorso complessivo di immagini, musica, storie e dialoghi tra i protagonisti.


GC: Il progetto è nato molto tempo fa. Il punto di partenza è questo film, Sonos ‘e Memoria, costruito con le immagini di repertorio dell’Istituto Luce, immagini disperse negli archivi dell’Istituto; altre ne ho staccate dai filmati di propaganda per le visite del Duce o del Re in Sardegna. Quindi sono un po’ le prime immagini che ritraggono la Sardegna, la mia terra. Levando gli aspetti trionfalistici della propaganda, resta quel poco di Sardegna che era rimasto impresso nella pellicola. Montando il film, ho pensato subito che quello che ci voleva era un’anima, un’anima che potesse farle vivere oggi e per far questo ho cercato un gruppo di musicisti straordinari, coordinati da Paolo Fresu, che, per così dire, dal vivo suonano queste immagini: per cui si ottiene una interazione tra immagini e musica. Il film Passaggi di Tempo racconta un po’ quest’avventura: dal ritrovamento delle immagini di repertorio al coinvolgimento dei musicisti, facendo un passo avanti, cercando quanto, nella biografia personale, nella storia, nelle frequentazioni di questi musicisti, queste immagini sono familiari. Per fare un esempio, il padre di Paolo Fresu fa, ancora oggi, il contadino e, a settembre, fa la vendemmia… e Paolo quando torna in Sardegna va a vendemmiare, normalmente, con il padre, perchè è una di quelle cose che ha fatto da piccolo e, quando può, torna in Sardegna e sta col padre. Oppure il violoncellista, che è appassionato di cavalli, corre a cavallo e fa, oggi, la stessa corsa ripresa nel filmato di repertorio. Niente appare cambiato e tutto appare molto cambiato.



JC: A proposito di Paolo Fresu e del padre: c’è quella scena delle parole nel sacchetto che è molto bella…


GC: Quella è praticamente la trasmissione di una lingua, ma anche la trasmissione di una memoria, di un qualche cosa che in qualche modo si è perso… Ad esempio, per dire piove, oggi diciamo piove o non piove, mentre, per un contadino, la pioggia ha dieci nomi diversi, se piove forte, se piove a goccioloni, sono tutte cose importanti per il suo rapporto con la terra. Per cui questo raccogliere le parole che oramai non si usano più è anche un modo per tramandare una ricchezza. E mi pare molto significativo che venga fatto da un contadino al figlio che le trascrive al computer e che è una persona abituata a stare in giro per il mondo: questo è particolare… Tu prima dicevi è un documentario, ma il film ha i suoi aspetti di finzione, di realizzazione; non so neanch’io bene come definirlo: è un film-documentario perchè insegue il linguaggio del documentario, del documento, ma alla fine è un film quasi tutto di finzione, perchè anche questa scena di cui parlavamo prima, questa di Paolo Fresu con suo padre, è stata girata con la finzione cinematografica, con la finzione delle luci… perchè, come il film di repertorio sul quale i musicisti suonano, c’era la necessita di ridistillare i momenti della vita di questi musicisti, che sono tanti, e quindi è stato fatto un lavoro di sceneggiatura sul conosciuto, su quello che in realtà è stato visto e vissuto da queste persone come gesto quotidiano, ma che poi è stato rifatto per la macchina da presa.



JC: Ad esempio anche la registrazione del coro nella chiesa di campagna, o la registrazione che avviene nella casa di Elena Ledda, immagino siano state ricostruite in qualche modo…


GC: Si, sono tutte ricostruite a partire da brandelli di vita reale. Poi ci sono delle cose che sono realmente documentaristiche come la deposizione del Cristo per la settimana Santa con il coro: quello è oggettivamente preso dalla vita reale.



JC: Il rapporto tra le scene che hai preso dagli Archivi dell’Istituto Luce e gli stessi riti, le stesse tradizioni riprese e girate ai nostri giorni. L’idea è quella di dare una continuità e, allo stesso tempo, dare anche il senso della differenza e quanto le cose siano cambiate svuotate nel corso del tempo.


GC: Da un punto di vista, se vogliamo, etico, è come se noi ci rendessimo conto di un passato che, magari non può più tornare, e non per celebrarlo in quanto passato, ma per considerarlo in quanto energia, benzina, punto di partenza necessario per fare un passo avanti, per poter portare in qualche modo questa cultura nel cambiamento e aprendola al mondo, cercando di comunicare all’esterno una cultura che è da condividere e non da proteggere, in termini di identità chiusa.



JC: Cosa che si percepisce senz’altro nel film. Proprio questo discorso quello di un passato che è passato, sì, ma non da troppo tempo: le sofferenze, le difficoltà che ci sono state non sono nemmeno troppo lontane da noi…


GC: Quelli sono i nostri nonni, in qualche modo: da una parte c’è l’omaggio, la voglia di suonare per loro, lo diciamo anche nel film, e dall’altro è proprio il sentire che ci sono dei passi avanti, delle differenze e delle perdite, in qualche modo. La scena finale, ad esempio, alla quale sono particolarmente affezionato, con questi due visi di donna che sorridono, è un po’ un qualcosa di ancestrale, guardare senza inibizioni una macchina da presa, al contrario di quello che succede oggi, dove tutti sanno cosa sia una macchina da presa: il volto delle due donne esprime proprio la mancanza di timore, quell’innocenza di sguardo che restituisce in qualche modo la musica, una musica gioiosa fatta di tante musiche diverse, che fanno un’unica musica che è poi una musica di oggi…



JC: E che prende anche i suoi punti di riferimento da tante espressioni musicali differenti: dal quartetto vocale Su Concordu ‘e su Rosariu di Santulussurgiu, dalla mandola e le launeddas fino al jazz di Paolo Fresu.


GC: Cercare di sentirsi liberi, come dice Antonello Salis nel film: fare musica senza badare ai generi o a un’etichette ma prestando attenzione all’anima, volando tra le varie musiche, tra le diverse matrici e, quindi, tra le varie esperienze e i vari sentimenti, perchè, non dimentichiamoci, che i musicisti reagiscono ai sentimenti che vengono proposti da questo mondo e ognuno di loro ha un rapporto diverso con la tradizione, con il passato e con quanto proiettato dietro le loro spalle.



JC: Tu hai lavorato sulle immagini dell’Istituto Luce, immagini di un periodo storico, del quale, di immagini, ce ne sono poche. Sarebbe possibile pensare che i nostri nipoti possano fare un’operazione del genere sul mondo di oggi, con la sovrabbondanza di immagini che c’è al giorno d’oggi


GC: Sarebbe sicuramente più difficile scegliere, fare una cernita, ma sarebbe ugualmente stimolante. D’altra parte, oggi, siamo talmente immersi nelle immagini. Per me, all’epoca di Sonos ‘e memoria, era anche il discorso di ritrovare le radici di un cinema, dovendo fare un omaggio anche a tutti quegli operatori senza nome che facevano le immagini dell’Istituto Luce, uno sguardo della memoria. Oggi sarebbe comunque possibile farlo e sarebbe possibile farlo su una altro momento storico importante come quello degli anni ’60, dove magari si vede ancora di più la modernità. In Sonos ‘e memoria e Passaggi di Tempo si vedono ancora degli elementi ancestrali, i nostri nonni da un certo punto di vista; riprendere, fare un lavoro simile sui nostri padri, ci metterebbe di fronte un mondo ancor più dilaniato tra modernità e passato. Alla fine credo che i nostri nipoti lo potrebbero fare, su di noi, avrebbero vita dura nella ricerca, vista la mole di materiale…



JC: Ma potrebbero avere il vantaggio della distanza storica…


GC: Quello si. Se pensi la sintonia che c’è tra la musica e quel tipo di immagini è data anche dalla vicinanza dei musicisti con il mondo delle tradizioni, come il film dimostra. In altre situazioni, anche se è passato lo stesso numero di anni, sembra che sia passato molto più velocemente. Se ad esempio vedi qualche film di Murnau o di Chaplin musicato dal vivo, ti da questo senso di distanza maggiore rispetto alla visione di Passaggi di Tempo: è più un fatto di percezione. Per cui, probabilmente, la nostra vita di oggi è più vicina alla nostra infanzia, cioè al passato remoto, che alla maturità, la vita degli anni sessanta, visto quante cose abbiamo cambiato, e quanto in fretta, negli ultimi anni…



JC: Anche se nei film muti di inizio secolo mancava, vuoi per la recitazione, vuoi per la consapevolezza, l’innocenza dei visi delle due donne che chiudono il film…


GC: Che è il riflesso, la sensazione della cosa scoperta per la prima volta, la sensazione dell’innocenza…