Finnish Jazz. Intervista. Jouni Järvelä

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Intervista a Jouni Järvelä


Recensione a A Grand Day Out

Jazz Convention: Cominciamo da A Grand Day Out, il tuo CD più recente. Come mai hai scelto di registrare il CD dal vivo?


Jouni Järvelä: Il primo disco dello Jouni Järvelä Group, Lento, è stato pubblicato nel 1999 e in questi sei anni abbiamo sviluppato nuovi brani e un diverso modo di suonare: era tempo di documentare questa evoluzione. Soprattutto eravamo eccitati perchè il batterista Audun Kleive si sarebbe unito a noi per la prima volta – e il suo contributo ha portato nel disco dei momenti particolarmente intensi. La decisione è stata semplice anche perché molto pratica: nell’aprile 2005 abbiamo suonato nove concerti in Finlandia e questo ci ha permesso di avere nove registrazioni. Dal momento che tutte le riprese avevano un buon suono, abbiamo potuto scegliere le tracce migliori e metterle sul disco. Ci sarebbe voluto tantissimo tempo in studio per ottenere la stessa quantità di materiale. Infine, penso che l’atmosfera della registrazione live sia decisamente differente da quanto riesci ad ottenere in studio: la ricerca dei limiti, la spontaneità, il divertimento e quella particolare “sporcizia”, tutte qualità che io amo ascoltare nella musica, sia nel jazz e nella musica improvvisata che nel rock e nella musica classica. E, con dei buoni musicisti, è decisamente possibile riuscire a realizzare un disco che suoni bene e che sia elettrizzante allo tempo stesso, senza fare nessun editing!



JC: Lo Jouni Järvelä Group è un quintetto dalla particolare composizione che propone una intrigante combinazione di suoni. Parliamo della formazione e del suo sviluppo.


JJ: Quando abbiamo messo insieme il gruppo nel 1996, con questa combinazione di strumenti e musicisti (sax, tastiere, chitarre, basso e batteria), speravo di mettere in evidenza gli aspetti polifonici del gruppo, attraverso armonie e strutture molto profonde e una scelta di colori e tonalità maggiore di quelle che puoi ottenere da un quartetto jazz tradizionale. Ovviamente per ottenere questo è importante anche il modo in cui tu suoni: musicisti come Elvin Jones, a mio avviso, hanno, da soli, tutta la gamma polifonica, tutte le strutture e le sfumature che tu puoi sperare dì immaginare. In ogni caso, molte delle mie composizioni, così come quelle del pianista e tastierista Samuli Mikkonen, sono influenzate dalla musica classica e questo tipo di scrittura accurata sicuramente viene meglio in evidenza quando hai a disposizione qualche strumento in più da usare. Quando abbiamo dato vita al gruppo, ascoltavo moltissimo formazioni come Weather Report, Pat Metheny Group e gli Oregon, così come la musica di Keith Jarrett e Jean Sibelius, per menzionare i più importanti. Con Samuli, abbiamo iniziato a provare forme più lunghe che includessero materiali accuratamente scritti e sezioni sviluppate, ma allo stesso tempo abbiamo sempre disposto gli spazi per improvvisazioni totalmente aperte. In pratica, l’improvvisazione può servire in ogni direzione, sia come riempitivo, che come colore o per sviluppare una sezione. La nostra intenzione musicale odierna è ancora questa e cerchiamo di definirla meglio ogni giorno. Per quello che riguarda i musicisti della band, Samuli Mikkonen è stato il primo musicista con cui ho scelto di collaborare. Abbiamo molti obiettivi in comune e idee molto vicine. In un secondo momento ho cercato un chitarrista che potesse portare un accento contrastante con il suono lirico, melodico e armonicamente complesso di Samuli. Credo che entrambi i chitarristi, Jarmo Saari prima e Marzi Nyman ora, siano stati una buona scelta in questo senso: entrambi hanno portato una certa ruvidita nel suono, colori accesi e sorprendenti, ritmo, richiami e accenti rock. Oltre, ovviamente, a saper rendere bene su qualunque terreno. Il bassista Lasse Lindgren, ha un tocco estremamente melodico nel suo suono di basso ed è un musicista al di sopra della media per quanto riguarda le funzioni armoniche e gli assolo e riesce a fare ottime cose sia con il basso elettrico che acustico. Il nostro primo batterista, Marko Timonen, è un grande orchestratore, capace sia di dare sapore ad ogni singolo suono che avere la giusta attenzione alle forme composite, cosa che non è così facile da ritrovare in molti batteristi che preferiscono usare i soliti trucchetti in ogni momento. Ora abbiamo la fantastica possibilità di lavorare con Audun Kleive. Ritengo che sia un musicista unico, assolutamente incomparabile e dal quale ho appreso moltissimo: nel suo stile si uniscono la sua concentrazione, la sua intensità e il suo impegno totale con una forza naturale, il suo drive raccoglie ogni sfumatura e ha un’abilità unica nel cambiare immediatamente direzione senza sacrificare in nessun modo l’esecuzione. Tutto il gruppo condivide l’intenzione di pensare al di fuori della griglia dei generi e ognuno ama e segue una enorme varietà di musica: questo permette al quintetto di seguire il suono, in ogni direzione. Il nucleo della band è dunque insieme sin dal 1996: non so se posso parlare di uno sviluppo costante e attivo del gruppo, dato che abbiamo avuto delle pause anche lunghe. Sicuramente, uno sviluppo c’è stato: siamo cresciuti e siamo più maturi, siamo decisamente musicisti migliori, più capaci e con meno paure, più aperti e onesti. Le esperienze di vita ti danno senz’altro molte più cose da dire.



JC: Lento, il precedente lavoro dello Jouni Järvelä Group, è stato realizzato nel 1999. Quali sono le differenze tra i due dischi?


JJ: In A Grand Day Out ci sono meno melodie scritte: l’importanza dell’improvvisazione nei temi è basilare e il significato spesso proviene dalle sfumature e dagli incastri ritmici. In ogni caso, anche se i brani dal vivo sono dilatati e perdono i confini della forma-canzone, restano, a mio avviso, sempre molto melodici.



JC: La sintesi è un aspetto importante del tuo lavoro: sintesi tra elettrico e acustico, tra jazz classico e nuove tendenze, tra influenze diverse.


JJ: Sto sviluppando una filosofia sul fatto che mi muovo nella direzione di operare una sintesi, di essere eclettico, di creare un mio marchio di fabbrica, ma in realtà, più semplicemente, noi non ragioniamo in termini di stile e di mescolanza tra stili, davvero. Siamo da sempre amanti di tutta la grande musica e le influenze sono perciò varie. Come risultato è per noi molto naturale pensare di poter usare tutti questi suoni. In effetti, non voglio enfatizzare troppo la sintesi come obiettivo e, in un certo senso, il concetto di essere forzato a sintetizzare gli elementi a qualunque costo: il mio lavoro è guidato dai suoni e il mio obiettivo è approdare dove mi spinge il mio orecchio. E andrebbe bene anche se dovesse portarmi a produrre pura musica country.



JC: In A Grand Day Out ci sono molte tracce provenienti da generi diversi, nuclei sonori e citazioni da canzoni e suoni. Come si svolge il tuo processo compositivo?


JJ: Spesso mi sono reso conto che per dare avvio a una composizione, ho bisogno di materiale che sento spontaneo, personale e che mi rappresenti profondamente. Dopo di che, verifico se è adatto alle variazioni e cerco di testarlo, applicando diversi punti di vista al nucleo di partenza. È il modo in cui lavorava Sibelius, ad esempio. Questo, forse, è uno dei motivi per cui ogni composizione ha una sua natura propria: così la band ha la possibilità di operare, di volta in volta, seguendo uno stile differente. Mentre compongo, posso inserire parti accuratamente scritte oppure pensare come il materiale possa stimolare l’improvvisazione. Nella scrittura, amo inserire connessioni profonde e motivate, ma sento anche che il lato istintivo e inconscio di ciascuno di noi ha necessità di esprimersi, in modo che non si costruisca la musica come un’ingegnosa vetrina; inoltre devi riuscire a nascondere la parte difficile, l’architettura del lavoro, il tutto deve suonare naturale e non forzato. Inoltre mi piace ascoltare la musica a posteriori e rendermi conto che le sorprese improvvise e “incidenti” intriganti appaiono naturali, inevitabili o necessarie.



JC: Come affermi nel tuo sito e nelle risposte precedenti, lo Jouni Järvelä Group esplora sia le improvvisazioni che le composizioni articolate. È giusto anche notare che, a partire dalle diverse influenze, il gruppo mantiene la libertà di muoversi con un approccio molto aperto…


JJ: Se scrivo qualcosa molto accuratamente, mi piace provarlo molto in modo che il gruppo possa apprendere totalmente il brano, suonarlo esattamente come è scritto, anche le parti più intricate, tutti i dettagli, le sfumature e le emozioni. Quando abbiamo imparato tutto, spingo tutti i musicisti a partire dal risultato e di suonare il brano, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. Per cui sebbene si parta da alcune parti scritte in modo accurato, non voglio incoraggiare una fredda rigidità chiedendo di eseguire le parti scritte così come sono, ogni volta che suoniamo dal vivo. Se i musicisti trovano una soluzione migliore, devono usarla. In primo luogo trovando nuove soluzioni sonore. Penso che così si motiva il solista ad improvvisare e a creare anche un suono di sostanza.



JC: Molti brani del disco sono stati composti dagli altri membri del gruppo. È una diretta conseguenza della gestione democratica della band?


JJ: Dal momento che gli altri membri del gruppo sono anche compositori è naturale la loro partecipazione. In un gruppo, c’è bisogno di una discussione aperta, delle sperimentazioni e delle idee di tutti, anche se qualche volta come leader, devi prendere delle decisioni importanti. In particolare, Samuli Mikkonen è un grande compositore ed ha portato alcune tracce molto belle e davvero originali per il gruppo.



JC: Tra Lento e A Grand Day Out sono passati sei anni. Come mai hai deciso di attendere così tanto tempo?


JJ: Da una parte non abbiamo atteso senza far nulla e, nello stesso tempo, non abbiamo avuto fretta e non abbiamo nemmeno pensato che fosse assolutamente necessario pubblicare in precedenza qualche cosa. Siamo stati sempre in movimento e ci siamo sviluppati in diverse direzioni. Quando ho finalmente deciso di realizzare il secondo disco, ho sentito immediatamente che era il momento giusto sia per le persone che per la musica nuova. Ora voglio registrare e pubblicare altri lavori più velocemente. Essenzialmente, però, non vedo me stesso come una società d’affari che deve sempre venir fuori con nuove cose. Per diverse ragioni, sento di aver bisogno di spazi e di una certa lentezza. Non mi diverte spingermi ai limiti per quanto riguarda i carichi di lavoro e, anzi, ho imparato a rallentare il mio approccio. Alle volte, la mia curiosità e l’osservazione di molte cose disparate prende tempo alle produzioni e, forse, sono anche tremendamente pigro.



JC: Come sei evoluto come band-leader in questi anni?


JJ: Spero, almeno, di essere oggi abbastanza maturo da non dare ordini alle persone su come suonare e potermi avvalere, così, del loro stile, delle loro soluzioni e divertirmi sentendo le loro versioni dei miei brani. Spero, inoltre, di aver imparato ad ascoltare maggiormente e di poter tacere sul palco quando la mia opinione non è richiesta in una determinata situazione musicale. Per quanto riguarda l’aspetto sociale del gruppo ci troviamo molto bene insieme anche dal punto di vista personale.



JC: Tu hai registrato anche come pianista. Come gestisci e come combini questi due aspetti della tua vita musicale?


JJ: Prima di imbracciare il sassofono, ho cominciato come pianista e, anche se non ho registrato come molto importanti al pianoforte, sento molto naturale esprimermi attraverso questo strumento o divertirmi a suonare delle cose. Suono anche il clarinetto e sto imparando anche a suonare il basso elettrico, mentre da bambino ho suonato per qualche tempo il violino. Il sassofono rimane certamente il mio strumento principale, ma sono sicuramente attento ad ampliare la mia possibilità di fare musica attraverso anche altri strumenti: mi libera dalla prigione dei “trucchi da sassofonista” – che spesso non sono così musicali – e mi permette meglio di vivere la musica sotto l’aspetto del divertimento piuttosto che irrigidirmi nelle dinamiche di un singolo strumento. Inoltre ti permette di conoscere meglio la musica nella sua integrità e di valutare meglio l’apporto che ogni ruolo può dare.



JC: Tu suoni anche il C-melody saxophone. Puoi parlarci di questo strumento e di come lo hai utilizzato?


JJ: È uno strumento raro e non molta gente lo suona: l’ho sentito da un mio amico e mi è piaciuto il suono, un peculiare incrocio tra alto e tenore che, alle volte, spiazza perché non è prevedibile. Puoi suonare molto dolce e morbido, ma il suo lato cattivo può risultare sorprendentemente violento: è un’ottima soluzione per molte situazioni.



JC: Nella tua biografia, si trovano molte apparizioni in big band e organici ampi, non solo nell’UMO.


JJ: Nella mia città, Imatra, è da sempre attiva una big band di dilettanti. Quando avevo cinque anni, ho sentito la banda e ho deciso che un giorno avrei suonato il sassofono. Ogni estate, i membri della banda organizzavano dei seminari che hanno dato vita, poi, a un festival lungo una settimana, focalizzato sulle big band e dedicato al jazz e ad altri generi simili. Ho partecipato ai summer camps: ho sentito moltissime formazioni di alto livello e ho studiato con insegnanti importanti. Ho iniziato a suonare nella big band di Imatra prima di andare a vivere e lavorare ad Helsinki. Subito dopo il Liceo, ho cominciato a collaborare con la grande UMO Jazz Orchestra e ne sono diventato un membro a tempo pieno dopo tre anni di ingaggi occasionali. Continuo a suonare con loro e questo lavoro mi ha dato la possibilità unica di suonare e collaborare con i più grandi musicisti jazz del mondo intero e con i migliori solisti finlandesi. È stato un privilegio e sono stato molto fortunato, oltre ad aver studiato e lavorato sodo. Come in altri contesti, quando le persone sentono le cose che fai, ottieni altri lavori e per questo ho suonato anche con altre big bands. Con la UMO, ho imparato molto nella costruzione di un assolo, ma anche degli aspetti orchestrali e di sezione. Si può pensare che lavorare in una big band possa essere limitante, rispetto a quanto fai in un piccolo gruppo: non è così se riesci a conoscere i tuoi spazi. Certo, è differente, ma puoi – e devi – dare il meglio delle tue capacità. Una big band non è un piccolo gruppo e, perciò, ti da anche qualcosa che i piccoli gruppi non possono darti, sia nei risultati che negli obblighi. Quanto ti viene richiesto in una big band, ti permette di sviluppare capacità che possono tornarti comode anche nelle situazioni più ristrette. Credo che questo concetto fosse metabolizzato molto bene nelle età più antiche del jazz. Dopo molti anni e un grande varietà di lavori in big band, anche se poi la musica che suono nei miei gruppi è differente per molti aspetti, sono ancora contento e per niente stanco di suonare in big band, di costruire un chorus di urla forsennate con tutta la sezione o, al contrario, di dar vita a un ben fatto “tutti pianissimo”.



JC: Qual è il tuo punto di vista sulla scena jazz finlandese?


JJ: Senza avere la pretesa di dare un quadro esaustivo, abbiamo molti musicisti di buon livello, diverse grandi personalità e un ottimo futuro, se ciascuno di noi continua a lavorare e a cercare le proprie strade. Quello che manca ai nostri musicisti sono gli aspetti di promozione e marketing, la possibilità di suonare e una grande visibilità pubblica. Spero che la musica, e le arti in generale, possano essere riconosciute come una forza essenziale per la vita. Il grande significato della vita non risiede necessariamente nelle grandi fortune monetarie, nel successo e via dicendo. Spero che gli artisti possano essere in grado di continuare i loto sforzi a dispetto del crescente disinteresse dei mezzi di comunicazione di massa e del mercato.