Se Cecil se ne va…

Foto: da internet





Se Cecil se ne va… Cecil Taylor + Anthony Braxton

Bologna, Teatro Comunale – 12.10.2007


Risulta difficile parlare di un concerto che praticamente non c’è stato, commentare un evento fallito. “Ritratto Taylor” voluto dal Festival AngelicA per i “Concerti Contemporanei” coinvolgeva tre città emiliane, due serate del pianista di Long Island in duo con Tony Oxley e con Anthony Braxton, una seduta in quartetto con gli stessi e il contrabbassista William Parker. Avevo scelto la data bolognese, il duo Taylor-Braxton, perché certamente rappresentava la data più stimolante e rischiosa. La prima assoluta.


Da subito, già entrando al Teatro Comunale di Bologna la sera del concerto si avverte una nota stonata: sul palco a fianco del pianoforte c’è un contrabbasso (di William Parker) che non doveva esserci. Si capisce subito che il duo, l’evento che ha mobilitato da tutt’Italia appassionati e addetti ai lavori non ci sarà. Che ci siano stati problemi per l’organizzazione lo si capisce anche dalla costruzione della prima parte del concerto, una specie di ancora di salvataggio senza la quale la serata sarebbe stata veramente da buttare via.


I tre musicisti si presentano a turno da soli. Taylor la prima volta leggendo una poesia, la seconda per fortuna sedendo al piano e regalando una performance dai ritmi fisiologici venati di straordinaria vitalità percussiva e visionaria. Venti minuti dove attraverso accumulazioni ed effetti di accelerazione ciclici il pianista americano torna a recuperare una frase iniziale rielaborandola in modo nuovo, in un fantasmagorico processo di costruzione “sinfonica” diluito in un flusso sonoro che tocca gli estremi del “pianissimo” e del “fortissimo”.


Braxton da parte sua non è da meno. Percorre, con soprano e alto, strade strette, tragitti contorti, segnati da frasi nervose, che si avvinghiano su se stesse e si chiudono in brontolii, sfiati, rumori, soffi, come se un limite fisico non gli permetta di raggiungere, comunicare ciò che la mente vede. La performance di Braxton in solo espone, nell’incontro vitale tra rigore e libertà, i risultati di quel profondo lavoro di autoanalisi che caratterizza il percorso artistico di un compositore-improvvisatore inarrivabile. In questo scenario il breve solo di Parker, giocato soprattutto con gli archetti, risulta fragile, dispersivo o quantomeno denota un certo disagio del musicista schiacciato dal peso dei due colleghi.


Difficile trovare in questa prima parte validi motivi di incompatibilità musicale da far presagire un tale finale del concerto, anzi si dice che il sound check pomeridiano fosse andato benissimo. Penso sia del tutto fuorviante tirare in ballo i diversi percorsi di Taylor e Braxton nella storia della musica afroamericana, soprattutto in rapporto alla loro vicinanza con la musica occidentale “dotta” che i due hanno interiorizzato e sviluppato su strade diverse. È più probabile che siano entrarti in gioco gli aspetti caratteriali, non facili, del pianista, una certa idiosincrasia, atteggiamenti divistici ma anche da parte della direzione artistica una certa sottovalutazione nel concepire un evento storico che poi si sono visti scoppiare tra le mani. Comunque la cronaca della seconda parte in trio è presto fatta. Taylor è torrenziale come al solito, lascia ogni tanto spazi per le ance di Braxton mentre Parker mantiene alta la pulsione ritmica. Ma è subito chiaro che i due non si incontrano. Ad un certo punto, sono passati poco più di quindici minuti, proprio su un attacco del soprano di Braxton, Taylor raccoglie rapidamente gli spartiti e se ne va con il suo passo danzante seguito subito da Parker. Il sassofonista rimane solo, si guarda intorno sbigottito, ripone lo strumento e li segue. Fine e buonanotte a tutti.