Finnish Jazz. Intervista. Esa Pietilä

Foto: Maarit Kytöharju










Intervista a Esa Pietilä


Recensione a The travel of fulica atra

Jazz Convention: Cominciamo dall’Esa Pietilä Trio. Qual è la storia della formazione e come hai scelto i musicisti?


Esa Pietilä: Il trio si è formato sette anni fa: è nato infatti nel 2000 per interpretare la mia volontà di lavorare il più possibile con i linguaggi delle avanguardie e del free jazz. In quel momento, sentivo fortemente il bisogno, artistico ed emozionale, di cambiare in modo radicale il mio modo di esprimermi: il mio sguardo si è rivolto alla comunicazione tra musicisti e ho aggiunto strutture, suoni ed elementi di avanguardia al mio suono e al mio concetto di gruppo. Il trio riflette l’ascolto e l’attenzione verso miei primi eroi quando, da adolescente, mi sono avvicinato ai musicisti free: Albert Ayler, Coltrane, Eric Dolphy, Ornette e molti altri. Ovviamente, all’inizio, non avevo una percezione esatta di quanto loro avessero fatto: con il tempo e la mia formazione musicale, ho compreso meglio il loro linguaggio. La formazione del trio, nel 2000, è stato come tornare indietro ai miei sogni giovanili e concepire una musica che suonasse vicina a quella lezione. Markku ha suonato nei miei gruppi sin dagli inizi, nel 1988. Anche Uffe era nel mio primo quartetto, ma poi è entrato a far parte delle formazioni di Edward Vesala suonando molto free jazz già nei primi anni ’90. quando nel 2000 ho deciso di dar vita al nuovo trio, è stato naturale chiedergli se voleva unirsi a noi: condivide la stessa visione musicale e ha maturato una grande esperienza nel free jazz. Anche Markku, negli anni, si è avvicinato sempre più al free, suonando questo genere di musica nelle altre formazioni in cui ha militato: era ovvio, in pratica, formare il trio con loro.



JC: Credo che il trio rappresenti un veicolo per l’espressione diretta delle vostre voci: c’è, nei brani del disco, la volontà forte di esporre insieme i vostri concetti musicali, una connessione più stretta di un normale interplay.


EP: Hai ragione. Il trio è saldamente la mia working band principale: ciò mi da la libertà di esprimere le mie idee in modo diretto. Ho sempre amato la comunicazione nel jazz – e nella musica in generale: l’ascolto reciproco delle diverse melodie e la comunicazione ritmica tra noi sono nate immediatamente e in modo intenso. Quando abbiamo cominciato a lavorare con regolarità, ho voluto che il trio si esprimesse con un suono collettivo, come se non ci fosse un vero e proprio solista, giocando, piuttosto, su idee contrappuntistiche, sulle linee melodiche e sulle direzioni da prendere. È stato bello vedere che questo modo di suonare è venuto alla luce molto prima di quanto io stesso mi aspettassi.



JC: Nel linguaggio del trio, è possibile ascoltare molti linguaggi e molte esperienze, la conoscenza di convenzioni e gli elementi basilari del suono sono combinati con le avanguardie e le sperimentazioni.


EP: Cerco di non restringere il mio pensiero musicale in una sola direzione; mi attrae tutto ciò che abbia un buon potenziale drammatico, un flusso e un movimento: credo che queste cose debbano essere nella musica. Oggi il mio punto di vista musicale si rivolge, almeno spero, verso ogni possibile elemento che la mia immaginazione possa creare e li adopera, per la maggior parte e in modo forte, attraverso gli strumenti dell’avanguardia e del free. È interessante, dal momento che sono un compositore, notare che ascolto lo stesso tipo di strutture e di forme sia nelle mie composizioni che nelle improvvisazioni: voglio dire, in pratica, che credo di aver imparato molto sull’improvvisazione componendo e mi piace pensare che improvvisare sia come comporre in quel preciso momento. Cerco di includere nel mio stile anche ciò che viene dalla conoscenza delle convenzioni e dalla tradizione: ho molto rispetto per la storia del jazz e, in secondo luogo, ho sempre notato che le idee originarie e basilari funzionano molto bene come punto di partenza per la sperimantazione, sei tu che devi decidere cosa farne: possono essere sviluppate ancora in molti modi sia verso la complessità che nella loro semplicità e immediatezza o, magari, aggiungendo accenti particolari: da un’idea semplice puoi creare delle sinfonie, pensa, per esempio, alla Quinta Sinfonia di Sibelius. Inoltre, mi sento come un elemento nell’evoluzione del jazz e voglio apportare le mie idee e le mie espressioni più profonde. È un campo libero e per un artista deve essere così.



JC: Il tuo approccio musicale alla libertà. C’è un feeling caldo e calmo nelle atmosfere create dalla tua musica.


EP: Domanda difficile, sono le atmosfere che sento e suono cercando di rappresentarle al meglio. In ogni caso credo che sia affascinante creare atmosfere diverse. Per quanto riguarda la libertà, credo che tutto possa essere espresso con uno strumento o con un gruppo e non ci siano limiti musicali in nessuna direzione nel momento in cui si improvvisa. Spesso la prima idea che spunta nella tua mente è un’idea valida e deve essere considerata come base tematica per le espressioni e le forme che vanno costruite a partire da lì, ma con buon gusto e con un mix ben bilanciato di elementi musicali e contrappuntistici, rendendosi conto di quale sia il ruolo dell’idea di partenza rispetto alla composizione e alle improvvisazioni dei solisti e del gruppo. Per esempio, può essere utilizzata come idea principale di un assolo o come congiunzione tra le frasi o come commento di una situazione precedente o come un impulso per uno scenario completamente nuovo o come domanda che porta verso nuove direzioni o ancora come collante contrappuntistico e così via. La parola libertà è, se si vuole, uno dei paradossi della musica: se uno pensa che cose differenti tra loro possano semplicemente essere messe insieme, il risultato è spesso il caos e non servono forme e, soprattutto, ciò non porta avanti nessuna emozione o energia. Sicuramente, non può esserci un gran suono se ci sono troppe idee insieme, senza un’idea principale o senza che questa sia abbastanza forte e chiara. Questo è il punto: l’idea principale deve essere suonata con precisione e forza in modo che l’ascoltatore possa realizzare quale sia e dove il gruppo stia puntando. Voglio anche dire che la libertà nella musica, e nell’arte in generale, significa scegliere: scegliere gli strumenti, i colori e i mezzi che vuoi usare ed esprimerti con quelli. In altre parole, spesso significa potare e togliere le cose che non vuoi usare. La libertà di scegliere è ciò che rende essenziale l’espressione libera e funziona molto di più se la tua idea è chiara a te stesso e se risulta leggibile all’ascoltatore il messaggio musicale che tu gli consegni. La libertà rappresenta uno stato d’animo intuitivo, devi confidare delle tue intuizioni: arriva il momento in cui un artista vuole esprimersi in personale e significativo e per far questo deve creare un suo vocabolario di suoni e di espressioni. Nessuno lo fa per te, devi fare questo da te: questa è una ulteriore libertà, in un senso più ampio, prenderti la responsabilità del tuo linguaggio e della tua creatività, di nuovo una libertà di scelta.



JC: In un certo senso si può pensare a The travel of fulica atra come una serie di situazioni dipinte dai vostri strumenti…


EP: È una definizione possibile e, sicuramente, molto appropriata. Travel of Fulica atra è anche la storia della folaga (fulica atra in latino) intorno al lago, gli scenari diversi e le atmosfere che incontra: gli avvenimenti e le emozioni vissute dall’uccello nei confronti dell’ambiente e delle circostanze, la notte (Radar), il giorno (New Morning), lo stagno (The Pond) e così via… tutte con la loro drammaticità di fondo.



JC: La folaga: come mai hai scelto questo soggetto come punto di partenza?…


EP: È stata una scelta puramente intuitiva, dopo aver ascoltato di persona cosa quest’uccello possa fare con il suo canto.



JC: Parliamo della scena free odierna. Quanto spazio c’è a disposizione nella nostra società occidentale moderna per le espressioni libere? Credi che sia un compito dell’arte quello di riportare la libertà in un mondo che cerca spesso dio omologare e di eliminare ogni voce diversa o personale?


EP: Credo che dovrebbero esserci molte più voci personali nel mondo. Quando le persone iniziano a pensare e ad agire in modo creativo, il mondo diventa un posto migliore in moltissime maniere. I cosiddetti “movimenti musicali di massa” o le tendenze, solitamente, propongono una musica con pochi valori artistici. Purtroppo spesso le persone si aggregano a queste tendenze in modo acritico, senza pensare con la propria testa, senza chiedersi quale musica vogliano realmente ascoltare o quali emozioni vogliano veramente provare. Le persone devono essere più oneste con se stesse e ascoltare maggiormente il proprio spirito. Questa è la chiave per trovare un posto migliore nel mondo per ciascuno di noi. Credo che la mia musica provenga solamente dal mio desiderio di esprimermi e la musica sia il mio canale più prezioso. Non so se sia un compito o un dovere: mi vedo come un messaggero di qualcosa, come se il nostro creatore mi avesse dato uno speciale dono musicale, mi sentirei cattivo a non usarlo.



JC: Nella tua musica ci sono molte connessioni tra radici musicali diverse e molte soluzioni personali. Come hai sviluppato il tuo suono?


EP: Mi piace vedere la musica come uno specchio, come una riflessione per la vita e le emozioni. È interessante tradurre in musica quello che vediamo intorno a noi. Per quello che riguarda il suono, beh, sono molto testardo e mi piace fare le cose secondo le mie idee. Nella mia adolescenza, ho ascoltato tantissimo i miei eroi e sicuramente loro hanno avuto un riflesso sul mio suono, in qualche modo, ma d’altro canto, sin dall’inizio della mia carriera, tutti mi hanno sempre detto, sia i musicisti che gli ascoltatori, che avevo un suono mio. La vera risposta alla domanda, però, è che a me piace mescolare i timbri, le frequenze e i colori secondo le mie intuizioni. Non c’è nessun bisogno di imitare o copiare qualcuno: devi prendere le tue decisioni riguardo a ciò che vuoi esattamente dal tuo suono e, in generale, dalla tua musica. Se penso ai tempi in cui studiavo alla Sibelius Academy, credo che, sin d’allora, io avessi un suono fresco e consapevole, anche se non avevo ancora idea di come avere un suono da sassofonista. La freschezza è una delle cose che voglio dal suono: inoltre devi essere fisicamente e mentalmente al 100% presente nel tuo suono per poter realmente cantare e poter essere arioso e corposo, allo stesso tempo. Essere presente nel tuo suono vuol dire che l’azione fisica del suonare, la circolazione del respiro e la tua mente siano realmente insieme perché il suono provenga veramente da te e non dal tuo sassofono: lo strumento deve essere una tua estensione. Sono contento del mio suono oggi e mi diverto ancora oggi come quando avevo tredici anni. Con questo intendo dire che il suono deve avere uno spirito, che è una sua componente essenziale; lo spirito mescola le tue qualità tecniche e le completa in un modo molto più apprezzabile di un suono ben educato. Il suono è, per me, davvero la cosa più importante, deve avere molta qualità e deve essere in grado di girare, mordere, cantare, urlare, sussurare, squittire e via dicendo. Sono questi i colori della tavolozza: possono essere studiati e ammaestrati al tuo volere, ma c’è bisogno che lo spirito infonda ogni nota, non c’è musica altrimenti…



JC: Nelle recensioni che ho letto riguardo ai tuoi lavori, ho notato un ampio, e spesso contraddittorio, spettro di sassofonisti hai quali ti hanno affiancato. Quali musicisti ti hanno ispirato e quali aspetti hai preso da ciascuno di loro?


EP: Bene, devo rivelare la mia ricetta segreta?… Scherzi a parte, questa risposta potrebbe non avere fine, perché è davvero difficile distinguere tra quello che hai imparato studiando la tecnica di un musicista da quello che hai imparato ascoltando ripetutamente un disco. Da ragazzo, ascoltavo e studiavo la musica di Albert Ayler – il suo spirito, il suo modo di costruire le forme – e praticamente tutte le opere di John Coltrane – le ritmiche, le armonie, il suo duo con Rashied Ali in Interstellar Space è una delle cose che ho amato di più. A questo devi aggiungere l’inventiva melodica di Wayne Shorter e la sua capacità di suonare come se stesse componendo in quel momento (una qualità che rispetto moltissimo in un musicista); la comunicazione, continua e biunivoca, di Joe Henderson con le sezioni ritmiche e il suo modo di suonare come un poeta, il suo riferimento costante al filo rosso del dialogo e la sua capacità di uscire ed entrare dal tempo. In Eric Dolphy ho trovato l’inventiva per le strutture e le melodie. ho ascoltato Jan Garbarek per il suo lirismo e il suo suono preciso. E, ovviamente, Ornette: semplicemente amo il suo modo di suonare rubato sul tempo: non credo di aver mai studiato veramente la musica di Ornette, è molto più una questione di ascolto, ma puoi far tua l’opera di un musicista suonando sui suoi dischi, senza applicarti in uno studio canonicamente inteso. Però, come dicevo prima, a un certo punto devi buttare via tutto quello che hanno fatto gli altri musicisti e cominciare a cercare il tuo suono e costruire il tuo vocabolario. Tra i musicisti della mia generazione mi piacciono Evan Parker, Mats Gustafsson, John Butcher. Un ringraziamento particolare lo voglio fare a Dave Liebman per avermi sostenuto nei primi passi e per aver condiviso con me il spirito e le sue conoscenze artistiche. E, infine, ho imparato molto ascoltando il canto degli uccelli, ma, si sa, loro non suonano il sassofono…



JC: Hai recentemente suonato in Italia con il tuo trio e Claudio Fasoli come ospite. Puoi raccontarci come è andato questo incontro? Hai avuto altri incontri con altri musicisti durante il tuo tour europeo autunnale?


EP: Abbiamo suonato varie volte con il mio trio in Italia e, nell’ultima occasione, abbiamo incontrato Fasoli, un grande artista e un musicista dotato di grande anima. Ci siamo incontrati a Boston, nel 2001, quando eravamo entrambi insegnanti agli annuali IASJ Summer Jazz Meeting. Ci siamo tenuti in contatto e abbiamo deciso di fare qualcosa insieme: nel 2007, prima l’ho invitato a suonare in Finlandia come ospite del trio e lui ha invitato il nostro trio in autunno a suonare a Venezia. L’incontro di due tenori, dalle voci molto particolari, funziona in modo davvero efficace e, in aggiunta, c’è la gioia di suonare con Claudio. In questo tour non abbiamo avuto altri incontri, ma con il trio abbiamo l’abitudine di invitare altri musicisti a suonare con noi se sentiamo che possano inserirsi nelle nostre dinamiche e portare freschezza e nuovi suoni nel materiale del gruppo. In gennaio, abbiamo avuto un incontro davvero bello con la pianista Iro Haarla: credo che faremo qualcosa di importante con lei in futuro. Abbiamo suonato con il batterista statunitense, Brian Melvin e con Raoul Bjorkenheim, un visionario chitarrista finlandese, con il suo freejazz passionale. Raoul è stato un paio di volte ospite del trio, mentre io ho suonato in molti progetti con lui. Nella mia carriera ho suonato spesso in giro per l’Europa e ho potuto tenere seminari e masterclass sul jazz e l’improvvisazione nei conservatori: in questo modo ho potuto incontrare molti bravi musicisti e suonare con loro. Nello scorso autunno abbiamo fatto un concerto collettivo totalmente improvvisato, senza nessuna musica scritta a Helsinki con il bassista svizzero Heiri Kaenzig e il batterista finlandese Mika Kallio. Con Heiri avevo suonato una sola volta in precedenza ma, sin dall’inizio, c’è stata una forte intesa musicale. Non servono grandi piani e molti incontri per dar vita a un progetto per un singolo concerto: senti immediatamente se con un altro musicista c’è la stessa frequenza espressiva e se si creano i presupposti per suonare insieme. Sono sempre stato aperto a questo tipo di scambi di idee musicali ed è molto importante per il mio trio, ora, avere anche un’agente italiana, vale a dire Eleonora Biscardi, di U.E.C.A., www.ueca.it.



JC: Natural Flow, in duo con il pianista tedesco Johannes Mössinger, è stato il tuo disco precedente. Quali erano le atmosfere e le direzioni musicali di questo lavoro?


EP: Un progetto di cooperazione tra noi: lui mi ha chiesto di suonare con lui e abbiamo organizzato un paio di tour e abbiamo registrato il cd in duo dal vivo a Colonia: il disco era caratterizzato da un suono rubato, che era l’idea iniziale del progetto.



JC: Parliamo degli altri progetti che hai promosso nel corso degli anni: Fastjoik, The Case, Finnish Onfonia, Fiestecita… Sono progetti ancora attivi?


EP: The Case è stato la mia seconda working band, dal 1995 al 1997: abbiamo fatto un CD e concerti per un paio di anni. Il quintetto Fastjoik è stato la formazione con cui ho lavorato di più nel biennio 1997-1998. Ora non lavoro più con questi progetti: tra quelli che hai citato, resta attivo solo Onfonia, un quartetto di sassofoni. Sono davvero molto concentrato sul mio trio, ora, ed è così ormai da sette anni, perché sento che è davvero la cosa musicale che mi appartiene maggiormente. Nel 2005 con il trio abbiamo dato vita a un quintetto collettivo, chiamato Nordik Kollektiv: abbiamo esteso la nostra formazione con il trombettista norvegese Mathias Eick e lo straordinario pianista islandese Kjartan Valdemarsson. con questa formazione abbiamo messo insieme un grande tour in Europa nella primavera del 2005. Spero di poter suonare di nuovo con Kjartan, abbiamo messo in conto di realizzare dei concerti in duo, vediamo cosa accadrà in futuro. In questi giorni, abbiamo formato un quartetto freejazz collettivo finnico-svedese, Comet, con il bassista Filip Augustson e il batterista Tuomas Ojala, dalla Svezia, e il trombettista finlandese Jarkko Hakala. Questo gruppo ha debuttato con un tour in Svezia, Estonia e Finlandia. Ho molte speranze che questa possa diventare una importante working band: suona musicalmente molto fresco e tutti i musicisti sono molto ispirati. Inoltre, ho spesso dato vita a performance di sax solo: un’esperienza che mi diverte molto e una sfida difficile ma molto gratificante perché permette ampie variazioni tematiche. In generale, cerco di tenere le orecchie aperte e suonare con musicisti di ogni continente e di ogni background musicale che possano condividere con me una stessa visione stilistica.



JC: Quale è il tuo punto di vista sulla scena jazz finlandese?


EP: La scena jazz finlandese oggi è molto buona e viva. Ci sono molti buoni musicisti molto attivi e artisti che possano competere sulla scena internazionale. Bisogna ringraziare il nostro ottimo sistema educativo che ha puntato molto sul jazz. Abbiamo straordinarie scuole di alto livello e molte altre possibilità di poter studiare il jazz. Purtroppo, avremmo bisogno di qualche agente, di livello nazionale, che si convinca a promuovere maggiormente la nostra musica in Finlandia e all’estero.