Finnish Jazz. Intervista. Mikko Innanen

Foto: Fabio Ciminiera; Traduzione: Luigi Corvetti










Intervista a Mikko Innanen


Recensione a Paa-da-pap

Jazz Convention: Cominciamo con Paa-da-pap, l’ultimo disco di Mikko Innanen & Innkvisitio. Parlaci della band e dei brani che hai registrato nel disco?



Mikko Innanen: Il gruppo diventa ogni giorno più solido e questo mi rende molto felice. Quest’anno abbiamo suonato in Danimarca, Svezia e Francia. Abbiamo suonato con tre diversi tenori – Timo Lassy, Daniel Erdmann e Fredrik Ljungkvist. Il duo ritmico Seppo Kantonen alle tastiere e Joonas Riippa alle percussioni è rimasto lo stesso dalla nascita della band, tranne per due concerti in Francia, in cui Seppo non c’era e abbiamo avuto il piacere di lavorare con Cedric Piromalli alle tastiere. In ogni caso, penso che le fondamenta del gruppo siano da attribuire al meraviglioso groove, all’interplay di Seppo e Joonas. Qualcuno ha detto: “Tutto quello di cui uno ha bisogno è una buona sezione ritmica”. Credo che la composizione sia un continuo processo di correzione, fino ad arrivare al punto in cui senti che non c’è più niente da aggiungere o togliere. Ho portato molti brani alle sedute di prova. Nei dischi e nei concerti, abbiamo inserito i brani dalla maggior presa, musicalmente parlando: il jazz è un’arte collettiva e una composizione non esiste realmente finché tu non la suoni con altri musicisti e non la condividi con un pubblico. Paa-da-pap consiste di cinque registrazioni, effettuate dal vivo durante un tour di nove concerti in Finlandia nel maggio del 2006: è una fotografia della nostra musica in quel periodo. Abbiamo ancora in repertorio molti dei brani presenti nel CD, ma, non c’è bisogno di dirlo, non suonano più nella stessa maniera, o almeno noi ci sforziamo di fare in modo che sia così.



JC: Parliamo del suono di Innkvisitio: ci sono due sassofoni, non c’è il basso, c’è un tastierista dotato di molto groove e grande fantasia. Quali sono i principali aspetti del suono del gruppo?



MI: Cerchiamo di coprire l’intero spettro di suoni “dal Jazz al Blues e oltre”. Abbiamo suonato insieme per un sacco di tempo. Siamo arrivati al punto che i suoni e i ritmi che usiamo sono diventati naturalmente qualcosa che è difficile da spiegare in termini tecnici.



JC: In particolare, l’incontro dei due sassofoni. Tu e Timo Lassy suonate spesso nella stessa gamma di suoni: quali sono i meccanismi dietro il modo di usare i sassofoni?


MI: Alcune melodie hanno bisogno di essere suonate all’unisono, altri brani funzionano meglio se armonizzati: non c’è nessuna regola in questo. Non si dovrebbe mai aggiungere nulla alla musica se non ce n’è bisogno. Il suono di Innkvisitio, di solito, consiste di due elementi: la sezione ritmica e quella dei sassofoni. Qualche volta suoniamo in maniera più collettiva, altre volte il sax baritono suona il basso e le tastiere suonano sopra. Utilizziamo molte opzioni, ma il più delle volte il setting è più “tradizionale”.



JC: Paa-da-pap sembra avere una costruzione più melodica rispetto ad altri tuoi lavori, le ispirazioni libere sono condotte in forme maggiormente definite. È un punto di vista corretto? oppure è solo il risultato delle sessioni del disco?


MI: In realtà, non amo la parola “free”. Per me, è poco descrittiva. A volte la gente si riferisce ad uno stile particolare e a volte è usato solamente perché non si hanno altri termini per descrivere qualcosa. In ogni caso, la musica di Innkvisitio è un mix di momenti pianificati e non. Di solito, abbiamo un piano definito delle cose che devono succedere, sappiamo dove andremo a parare; altre volte le cose accadono mentre suoniamo.



JC: L’interplay di Innkvisitio è evidente. Come influisce questo fatto sulla composizione e sulle atmosfere che vai a creare per il gruppo?


MI: È un aspetto assolutamente presente nella mia mente quando sto componendo per la band: è una cosa che voglio far sottolineare in modo forte e profondo.



JC: I nomi e i titoli: Innkvisitio, Paa-da-pap e anche i titoli di alcuni altri brani… come scegli i nomi dei pezzi?


MI: Paa-da-pap è ovviamente un titolo onomatopeico, proviene dalla melodia del brano e lo spiego con un piccolo racconto metaforico nel booklet: sono le voci degli uccelli che cantano e sembrano contenere, intraducibili, le risposte a tutte le domande del compositore, e dell’uomo, sul significato del proprio lavoro. Per quanto riguarda gli altri titoli, Grey Adler è un dattilografo tedesco, Berber ci porta nell’Africa del Nord; io non faccio parte di Attac, il brano è ispirato da qualcuno che ne fa parte. Nel 2003, mi sono dovuto esibire in concerto, con una mia formazione, per potere conseguire il Master of Music presso La Sibelius Academy: il nome Innkvisitio è nato in quell’occasione, così come i primi principi della musica e del gruppo che sono in questo lavoro. Non ho una regola nello scegliere i titoli, a volte mi vengono naturalmente, altre volte devo pensarci di più.



JC: F60.8 è un solo-record, ma non è semplicemente un sax-solo…


MI: Non voglio sembrare drammatico, ma il disco è davvero un documento di un processo di sopravvivenza mentale. Per diverse ragioni, in quel periodo, mi sentivo piuttosto giù e realizzare la musica che si può sentire su F60.8 mi ha fatto sentire molto meglio. In questo senso è un disco molto personale: ho ascoltato ed espresso la mia voce interiore. Il 98% del suono che senti sul disco è basato sul sassofono. Ho usato gli strumenti di registrazioni più economici che esistano: minidisc, registratori digitali etc. Nessun computer e nessun macchinario è stato usato nel processo di registrazione. In realtà, non era mia intenzione pubblicare quel materiale. Naturalmente mi è piaciuto ciò che ho creato, ma credevo che non avrebbe mai potuto interessare nessun altro. Ho fatto sentire alcune delle registrazioni al produttore Pekka Tuppurainen e, con mio grande stupore, gli sono piaciute e ha voluto che uscissero con la sua nuova etichetta. Pekka ha fatto qualche modifica e lo ha mixato in maniera davvero egregia.



JC: Qual è stato il processo che hai seguito per creare i brani di questo lavoro?


MI: Di solito, ho registrato prima una “traccia ritmica” con il microfono del minidisc dentro la campana del sassofono; quindi ho suonato queste registrazioni nello stereo di casa, improvvisando su questa base: con il registratore vocale, ho ripreso le due tracce. Questo è stato il principio base. Ho voluto realizzare una musica molto ritmica, nonostante fosse una registrazione in “solo”.



JC: Sulla quarta di copertina del CD, si descrive la musica presente in F60.8 come “una bellezza e una bestia”. Ti trovi d’accordo con questa definizione?


MI: Penso che entrambi gli elementi, il bene e il male, dovrebbero essere sempre presenti nella musica. Per me è realmente questa la bellezza del jazz: una combinazione di body and soul (corpo e anima – n.d.t), di sense and sensibility (senso e sensibilità – n.d.t), di Dio e Diavolo… in una: Ugly Beauty!



JC: Triot ti ha dato la possibilità di suonare con un grande sassofonista come John Tchicai. Parliamo di questo gruppo e dell’incontro con una delle figure più importanti della storia delle avanguardie del jazz.


MI: Abbiamo cominciato a suonare con Stefan Pasborg e Nicolai Munch-Hansen 10 anni fa: abbiamo suonato in trio per alcuni anni e, alla fine, abbiamo avuto la possibilità di lavorare insieme al leggendario John Tchicai. Avevo 24 anni: per questo nella foto sembro così giovane. È stata una bellissima esperienza lavorare con John e mi è capitato di nuovo qualche anno dopo, una cosa che mi è successa tanto tempo fa. Continuo ancora a scoprire e ad utilizzare quanto ho imparato da lui. La stessa cosa mi è successa quando ho suonato con Han Bennink. Mi sento privilegiato ad aver conosciuto questi due bellissimi giganti.



JC: Un altro tuo gruppo è Delirium: la formazione è simile sia negli strumenti che nei musicisti, ma, almeno in Eclexistence, la musica è meno free che in Sudden Experience. Qual’è la filosofia musicale di Delirium? e quali sono le differenze tra le due formazioni?


MI: Come ho detto prima, non so cosa significhi realmente il termine “free”. Ovviamente cerco di essere il più libero possibile, tenendo conto del particolare contesto in cui mi trovo a suonare, ma questo vale per ogni tipo di musica, penso. Provo a non pensare troppo in termini di stile. Il CD di debutto di Delirium, registrato nel 2000, è molto differente da Eclexistence e spero che il prossimo sia ancora differente. Delirium è una “working band” in costante evoluzione: è uno sforzo di gruppo e adoro essere parte di questo gruppo.



JC: Un altro importante progetto nella tua carriera musicale è Gourmet. Come è nato questo gruppo e quali sono le sue direzioni musicali?


MI: Gourmet è stato fondato da me ed Esa Onttonen nel 1996. Volevamo una band che potesse vivere della nostra particolare idea di musica in quel momento. È cominciato davvero come un esperimento, voglio dire, e ancora adesso, dopo 12 anni e due CD, è ancora un esperimento.



JC: Ci saranno nuovi dischi di Gourmet?


MI: Abbiamo in programma dio realizzare un nuovo disco di Gourmet non appena ci renderemo conto di quella che deve essere la sua fisionomia.



JC: All’inizio della tua carriera, hai avuto un esordio davvero eclatante: hai vinto premi internazionali, hai avuto immediatamente la possibilità di suonare con i più grandi nomi finlandesi e stranieri. Come ha influito tutto questo sulla tua crescita musicale?


MI: Il successo è una cosa molto relativa. Credo di essere stato molto fortunato perché ho potuto suonare nella maggior parte dei casi la musica che volevo suonare e nel modo in cui volevo farlo. Tutto sommato ho cominciato molto giovane: per questo motivo, dal mio punto di vista non ritengo che le cose siano successe in modo così veloce.



JC: Parliamo delle tue influenze. Quali sono stati i musicisti fondamentali nella tua educazione musicale?


MI: Ho iniziato a suonare il sassofono a dieci anni. La collezione di dischi di mio padre mi ha fatto scoprire quasi subito il jazz: così sono diventato un adolescente divoratore di bebop. Coltrane è stato il mio primo grande idolo, dopo di che ho scoperto Charlie Parker. Monk, Ellington, Ornette Coleman, Eric Dolphy, Billie Holiday, Charles Mingus, Joe Lovano e Ben Webster, solo per nominarne alcuni, sono stati altri miei punti di riferimenti sin dai primi ascolti. La mia fortuna è stata quella di trovare a Loviisa, la città dove vivevo in quel periodo, un insegnante, Bengt Ingelin, che amava il jazz. A quattordici anni ho cominciato a studiare con Jukka Perko che, oltre ad essere un grande sassofonista, è anche he un insegnante molto stimolante. Quando mi son iscritto alla Sibelius Academy, ho studiato sotto la guida di Sonny Heinilä, Raoul Björkenheim, Anders Jormin e dei molti insegnanti invitati dalla scuola, per seminari e corsi . In ogni caso, il più importante insegnante devi essere tu: nessuno può realmente conoscere cosa stai veramente cercando o quale suono senti all’interno della tua testa. Sono stato influenzato, fino ad oggi, da tante di quelle cose, musicali ed extramusicali, che fare una lista non sarebbe del tutto corretto: ci sono i musicisti con cui ho suonato, i numerosi dischi che ho ascoltato, i concerti a cui h assistito, le persone che ho incontrato, i posti che ho visitato e da tutti quei fattori sconosciuti, che non percepisci nemmeno in modo razionale. Voglio continuare a imparare e voglio che la mia curiosità resti sempre sveglia. Ad esempio quest’estate ho studiato con Yusef Lateef: una esperienza travolgente per a mente, oltre che musicale in senso stretto.



JC: Ti ho visto suonare due volte, come ospite di Ibrahim Electric e della Pierre Dorge New Jungle Orchestra. Versatilità e conoscenza di diversi linguaggi sono due qualità importanti in un moderno musicista di jazz: qual è il tu punto di vista?


MI: A mio avviso, credo che sia molto importante cercare di avere una tavolozza musicale la più ampia possibile e, soprattutto,.essere abili nel trovare il colore giusto nel momento in cui serve.



JC: Tu hai studiato e vissuto a Copenhagen e hai una relazione forte con i musicisti danesi. La tua residenza in Danimarca ha avuto una grande importanza nello sviluppo del tuo linguaggio.


MI: Ho vissuto a Copenhagen per un anno, tra il 1998 il 1999, ma è stato un anno veramente importante per me. Ho avuto modo di studiare a fondo lo strumento e, ancor più importante, ho suonato molto con i musicisti che studiavano con me e con i musicisti danesi. Il semplice fatto di essere in un ambiente nuovo mi ha permesso di ampliare il mio modo di capire e approcciare la musica. Io raccomando vivamente ai giovani musicisti di studiare fuori, anche per un breve periodo: inoltre, essere in un altro posto ti permette di stabilire contatti importanti e duraturi. Credo che Copenhagen resti sempre una delle città europee più creative e vivaci per quanto riguardo il jazz e la musica improvvisata.



JC: Qual è il tuo punto di vista sulla scena jazz finlandese?


MI: C’è un grande potenziale per quello che riguarda musicisti e formazioni nella scena finlandese del jazz e della musica improvvisata. Purtroppo spesso manca interesse per la musica creativa e questo non permette a tutti i musicisti di esprimersi al meglio delle loro potenzialità: impari tantissimo suonando e, specialmente suonando davanti a un pubblico. Credo che ci dovrebbe essere maggiore solidarietà tra le diverse generazioni e, in generale, nell’ambiente, ci dovrebbero essere condizioni migliori per il jazz e la musica improvvisata. Abbiamo senz’altro un grande supporto dalle istituzioni pubbliche, ma la mancanza di mezzi di comunicazione attenti alle musiche creative pone effettivamente dei problemi. La globalizzazione non sarà una cosa buona per l’ambiente, ma, se non altro, porta alla musica e ai musicisti un gran numero di nuove opportunità di lavoro.