Finnish Jazz. Intervista. Sid Hille

Foto: Maarit Kytöharju; Traduzione: Luigi Corvetti










Intervista a Sid Hille


Recensione a Rite of Passage

Jazz Convention: Partiamo da Rite of Passage. La parte centrale si concentra sulla figura di Juan Rodrigo de los Pereiros. Come mai hai scelto la sua storia come trama del disco e come l’avete tradotto in musica.


Sid Hille Ho sempre avuto un grande interesse per le persone carismatiche: come spendono la loro vita e come fanno uso del proprio dono. Ho scoperto la legenda di “El Chicho” durante una vacanza estiva a Jaen, in Andalusia nel 2000. La musica è stata composta sei anni dopo, quasi indipendentemente dalla storia. Mi sono reso conto, ad un certo punto, durante i due mesi spesi intorno alla composizione che la storia di “Chicho” si adattava perfettamente alla musica. Quindi, non mi sono cimentato nella composizione della storia in musica, almeno coscientemente.



JC: Rite of Passage contiene brani che provengono da ispirazioni diverse. Come li hai mescolati insieme per creare un’atmosfera omogenea e coerente?


SH: Penso che il fatto che Rite of Passage sia diventato un’entità omogenea è dovuto alla strumentazione presente nel disco e alle idee melodiche e compositive che ho usato. Spero che un giorno qualcuno sarà interessato ad analizzare in quanti modi i differenti pezzi di Rite of Passage sono connessi. Mi hanno sempre affascinato lavori come “Sgt. Pepper” o “We’re only in it for the money”, in cui i singoli brani funzionano separatamente, ma, per qualche motivo, una volta che uno comincia ad ascoltare il disco, non può smettere prima della fine, per quanto sono forti i legami tra i brani, per quanto è coerente il discorso complessivo del lavoro.



JC: Puoi dirci qualcosa sulla composizione delle singole tracce?


SH: Per quanto riguarda le ispirazioni, quando comincio a lavorare su un nuovo pezzo, spesso mi siedo al piano ed improvviso. Quando le mie orecchie si imbattono in qualcosa di interessante, mi fermo e lo annoto sul mio taccuino, su cui raccolgo molte idee: se il primo input è buono, comincio da lì e mi lascio trasportare. Adoro le melodie cantabili! Armonicamente, mi interessano molto le scale aumentate e diminuite e le possibilità immediatamente legate ai loro accordi. Queste scale mi permettono di disegnare un’atmosfera ambigua che evita la tradizionale dualità maggiore/minore. The Translation of El Chicho è stato scritto tutto in una volta: prima “Pagan Dance”, quindi “Hymn”, poi “Passage” e infine “Mystic Chant”. Gli altri tre brani erano, in origine, pezzi per big bands che ho riadattato per strumenti a corda. “All One” e “Now Gone” sono stati aggiunti in seguito, sono due frammenti registrati il giorno del missaggio, per rifinire il totale.



JC: Parliamo del suono di questo disco. Prima di tutto, la presenza di Proton String Quartet. Come hai mescolato i suoni dei due gruppi?


SH: Non penso a loro come due gruppi ma come un Platypus Ensemble allargato o come una piccola big band. È incredibile quante possibilità offrano gli archi. Il suono inizia nella mia immaginazione mentre sto componendo e finiscono nelle mani di eccellenti musicisti che comprendono lo spirito dell’intero progetto e suonano con partecipazione, invece di limitarsi a produrre le note richieste. Durante il processo di missaggio do deliberatamente molto spazio agli archi, molto più di quanto ne avrebbero in un normale disco pop, dove, spesso, vengono usati solo come una costosa tappezzeria.



JC: Un’altra direzione importante nel suono del gruppo è l’incontro del quartetto acustico con le tastiere che tu usi nelle diverse tracce.


SH: Negli ultimi anni, ho preferito il suono di strumenti acustici. Ma ho sempre amato il Rhodes e non penso che sia una coincidenza se alcuni pensano a Chick Corea quando ascoltano Rite of Passage – anche se non ci sono correlazioni immediate. Ma “Return od Forever” è stato uno dei primi dischi che ho avuto e poi mi sono avvicinato ai dischi ECM. Penso che quello che stavo cercando era lo stesso spirito – curioso e sperimentali – degli anni ’70. In futuro potrei usare ancora l’elettronica; ho appena comprato un Theremin e sto pensando di comprare un Moog.



JC: La presenza delle voci crea un fil rouge, leggero ma presente, durante la registrazione. Come ci hai lavorato?


SH: Giocosità e divertimento sono importanti per me come musicista e come ascoltatore di concerti. Mi annoio facilmente anche con eccellenti musicisti, quando questi suonano solo per mostrare il loro virtuosismo. Chiedere ad uno strumentista di cantare lo rende più coinvolto personalmente, perché la voce è lo strumento più intimo e, allo stesso tempo, cantare fa sentire una persona nuda ed onesta.



JC: Vrindavan in Vindala, secondo me, è il manifesto del disco, con sapori spagnoli, con la sezione affidata a voci e tamburi, con il lavoro armonico del piano elettrico, con la sua struttura composita.


SH: Sono contento di sentirti dire questo. Penso che Vrindavan sia uno dei pezzi migliori che abbia scritto. Mi piace la vasta struttura strumentale impiegata: Manuel suona anche il flauto, il leggero glissato degli archi all’inizio del pezzo, la mia melodica all’unisono con il sax soprano; io e Teppo ci siamo davvero divertiti durante il dialogo tra voce e percussioni; e, naturalmente, il grande culmine alla fine con il bellissimo assolo di tenore di Manu. Penso a Vrindavan in Vindala come ad un omaggio al tempo che ho trascorso in India.



JC: Penso che tu abbia una grossa coscienza per quanto riguarda la regia musicale che vuoi esplorare con Platypus, fin dall’inizio. Mi riferisco sia alla scelta dei musicisti, che alla precisa dichiarazione che hai fatto presentando la band nel tuo sito web.


SH: La chimica tra le persone che lavorano in una jazz band è uno degli elementi più essenziali alla riuscita di un progetto, non ci sono parole tanto grandi da descrivere esattamente la sua importanza. Mi viene in mente il quintetto di Miles Davis negli anni ’60. Una grande band è molto più che la somma delle eccellenze degli individui che la compongono. E sono contento che questi ragazzi – Manu (Manuel Dunkel – n.d.r.), Ape (Ari-Pekka Anttila – n.d.r.) e Teppo (Teppo Mäkynen), continuino ad essere interessati ai miei progetti musicali e mi aiutino a tenerli in vita.



JC: In particolare, penso che sia importante sottolineare l’aspetto della comunicazione in musica..


SH: Sono d’accordo. È un fine equilibrio tra l’ascoltare, il contribuire, il rallentare, lo stravolgere o permettere e aspettare, guardare cosa avviene. Non solo musicalmente mentre si suona in concerto, ma anche durante le prove, a volte verbalmente. La comunicazione è viva perché permette ai cambiamenti di avvenire. I grandi maestri dispongono una comunicazione complessa e articolata nella loro musica scritta: ho ascoltato di recente Gruppen di Stockhausen, c’è una enorme quantità di vita nella sua musica!



JC: Rite of Passage è il quinto CD del Platypus Ensemble. Parliamo della evoluzione della band?


SH: Il nostro primo disco, Platypus, è stato pubblicato nel 2000. Ho amato questo disco perchè mi ricorda i lavori della ECM che ascoltavo da ragazzo. Gestalt del 2003 fa un grosso salto avanti: qui la band è cresciuta, oltre i singoli musicisti, e la mia composizione si è evoluta ad un nuovo livello. Il disco resta comunque, ancor oggi, una prova valida della nostra visione musicale. Satsang, del 2005, disegna un’atmosfera simile a quella di un ensemble cameristico. Consiste di due sessioni: una con il quartetto e nell’altra abbiamo invitato ad unirsi a noi il chitarrista Teemu Viinikainen. La mia idea era quella di ridurre il materiale al minimo ed improvvisare in modo contrappuntale e polifonico. Anche se mi piacciono le singole tracce, il CD è meno coerente rispetto ai primi due. Life@Play, pubblicato nel 2007, è un CD registrato dal vivo a Basilea, in Svizzera. L’idea era quella di dare un quadro inedito e onesto di una working band. Il pacchetto includeva un documentario su DVD del nostro tour del 2003-2005. Penso che rispetti in piano il senso del titolo: pieno di giocosità e vita. Dal 2006 ho cominciato a sperimentare l’aggiunta degli archi al Platypus Ensemble e Rite of Passage è il primo risultato. Anche se continuiamo ad esibirci come quartetto, molti dei nostri concerti sono con il Proton String Quartet. Sono due programmi diversi e in un certo senso li considero come due band diverse, ma, a volte, è difficile tracciare una linea di demarcazione dal punto di vista del marketing.



JC: The Sid Hille Jazz Orchestra. Hai scritto nel tuo sito che hai costruito l’orchestra intorno al nucleo del Platypus Ensemble. Cominciamo da questo punto per parlare del tuo lavoro con l’orchestra.


SH: Scrivo partiture per orchestra jazz dal 2001, senza contare alcuni esperimenti precedenti. Fondamentalmente, tutto è cominciato da un pezzo da 50 minuti per trombone e orchestra jazz chiamato Frutas Maduras. È stata un’esperienza di flusso totale durante la composizione, per la la mia prima volta. Non so ancora come sia stato possibile, ma ho raggiunto l’obiettivo: 6 movimenti, 50 minuti, in tre mesi. Ho cominciato a scrivere e, ogni volta che finiva un movimento, arrivava l’idea per il movimento successivo. In Finlandia c’è solo una big band professionista, la UMO jazz Orchestra, e, dal momento che ci sono molti compositori, ed è possibile solo di rado far inserire i propri brani nel loro programma, ho deciso di fondare la mia orchestra, la Sid Hille Jazz Orchestra per eseguire la mia musica per organico ampio. Molti dei musicisti, ovviamente, suonano anche nella UMO; e la mia band ha fatto solo pochi concerti. Ma il vantaggio di sapere per chi sto scrivendo è enorme. Conosco le specialità e le preferenze dei miei musicisti, per esempio nel mio concerto per tromba ho scritto una sezione dove la tromba solista e una sezione di trombe dialogano tra loro senza bocchino. Non tutti i musicisti amano questo tipo di sfida – ma il risultato è fantastico, ricorda i flauti Shakuhachi, della tradizione giapponese. Ci sono due importanti ragioni per avere i musicisti della Platypus Ensemble nel nucleo dell’orchestra: uno, perché conosco molto bene quello che possono fare e, secondo, perché adoro come lo fanno. La considerazione principale, comunque è di tipo pratico: a volte provo pezzi per big band prima con il quartetto. In questo modo i musicisti essenziali hanno già una buona confidenza con i pezzi e il tempo per le prove può essere usato in modo molto più efficiente. La prima registrazione di Sid Hille Jazz Orchestra uscirà l’anno prossimo con un cortometraggio sull’orchestra.



JC: Come è stato concepito e prodotto questo lavoro?


SH: Lo scorso anno abbiamo registrato un concerto dei SHJO con quattro cineprese e con ottima qualità sonora: faremo il missaggio della musica nel gennaio 2009. Abbiamo eseguito il mio concerto per tromba con Tero Saarti della UMO come solista, il mio concerto di percussioni con Teppo Mäkynen, come interprete principale, e due brani più brevi eseguiti da Teemu Viinikainen e Manuel Dunkel. Il video sarà, in buona sostanza, un documentario: includerà parte del concerto, intercalate a brevi interviste. Queste interviste saranno filmate in varie location nei dintorni di Helsinki che sono correlate al jazz e ai musicisti intervistati: ad esempio, l’intervista a Teppo Mäkynen verrà fatta Digelius, famoso negozio di dischi jazz, in Five Corner Square ad Helsinki. Io curerò la regia del film, un editor professionista mi aiuterà poi nel realizzare il lavoro in studio.



JC: Tu hai vinto, lo scorso anno, il premio “Scrivere in Jazz 2008” in Sardegna. Puoi dirci qualcosa di quest’esperienza?


SH: È stato un weekend magico in Sardegna. Giovanni Agostino Frassetto e l’Orchestra Jazz della Sardegna hanno fatto un bel lavoro, grandi musicisti, così come Massimo Carboni, al sax tenore. Sono stato benissimo sulla spiaggia di Sassari, c’era un tempo splendido. Mentre in Finlandia cominciava di nuovo a fare freddo io ero a piedi nudi nel mare. Così, ero già totalmente felice quando sono arrivato alla sala del concerto: quando hanno annunciato che il mio pezzo, Tango Morbido Y Cinico, aveva vinto mi sono sentito… “accettato”, immagino sia la parola giusta. È bello e importante avere un feedback positivo, alle volte, perchè spesso, durante il processo creativo uno è assorto da centinaia di dubbi. Il laboratorio di ciascun compositore può essere un posto di euforiche anticipazioni o di crudeli dubbi.



JC: I tuoi primi lavori sono due registrazioni con piano solo. Immagino che ci sia una motivazione dietro un lavoro così forte e concentrato sul piano solo per due anni consecutivi?


SH: Queste due registrazioni per piano solo sono state molto importanti per me, dal punto di vista personale. Ho seguito mia moglie che si è spostata per seguire la sua orchestra (è una violinista) nel nord della Finlandia senza conoscere nessuno e senza parlare la lingua. Ho cominciato a mettere su un dipartimento di Jazz nel conservatorio locale e sono stato molto preso dall’insegnamento, ma la mia vena creativa era bloccata, dal momento che non conoscevo musicisti finlandesi. Così, per la mia prima registrazione, mentre vivevo in Finlandia, sono tornato in Olanda per suonare con Hein Van de Geyn e André Ceccarelli e continuare la nostra precedente collaborazione – Dunjin’s Dance è stato pubblicato nel 1993 e To Be Frank in 1997. Ma era un set-up troppo complicato per una working band e, inoltre, non ero troppo conosciuto come leader. Quindi, sono tornato nella mia “grotta” e mi sono concentrato a lavorare e a sviluppare le mie idee compositive. Durante questo periodo ho registrato due CD intimi e meditativi nell’auditorium del conservatorio: solo io, di notte, nessun ascoltatore, nessun tecnico, completamente solo. Queste session mi hanno aiutato ad accettare e apprezzare il mio Io musicale, con tutti i suoi limiti. Nel 1997 ho scritto il primo brano per Platypus e, in quel’occasione, ho conosciuto i ragazzi che si sarebbero uniti a me per la registrazione nel novembre 1997 e il successivo tour belga-olandese nel 1998.
Anche se la Finlandia è una nazione piccola, ci sono molte scene musicali che operano indipendentemente le une dalle altre. Quella che conosco meglio è quella che si è formata intorno al Sibelius Academy jazz department: c’è una profondo rispetto e conoscenza reciproca con loro. Ormai faccio jam molto di rado e, così, incontro nuovi giovani musicisti soprattutto attraverso i progetti che organizzo o in cui sono coinvolto. Ma c’è un’intera scena Free e diversi musicisti pop-oriented e soul-oriented che non conosco molto bene. Sono soprattutto concentrato sul mio lavoro, che mi assorbe alquanto.



JC: Parliamo di Satna Music. Come mai hai scelto di diventare produttore dei tuoi dischi e quali sono, adesso, i tuoi obiettivi principali nel lavoro della tua etichetta?


SH: Devo ammettere che mi piace avere il controllo di ciò che avviene della mia musica. Apprezzo l’input creativo e le opinioni degli altri, ma non voglio che altri decidano del mix finale o dell’ordine dei pezzi nel CD, o anche dove mettere il logo sulla copertina. Inoltre penso che, oggigiorno, poche etichette investono ancora nei loro artisti. Nessuno può permettersi di affrontare rischi commerciali o artistici. Un artista spesso è tanto coinvolto da affrontare comunque delle spese e così ho pensato di non voler aspettare tempi migliori ma andare avanti e fare tutto da solo. Dall’altro lato, ho visto quanto siano limitate le mie possibilità, per esempio, nell’ottenere una vasta distribuzione per i miei CD. Non ho i contatti, senza contare il tempo che bisogna impiegare per questa parte del lavoro. Ma, almeno per il momento, so che ho tutti i diritti sulla qualità della musica che produco. Così, un giorno, se qualcuno viene e mi offre una buona opportunità sarò libero di decidere cosa voglio.



JC: Qual è il tuo punto di vista della scena finlandese?


SH: Come in altri Paesi, anche in Finlandia, ci sono alcuni musicisti eccezionali e molti buoni musicisti. Alcuni sono già impegnati in una carriera internazionale, mi vengono in mente artisti come Teppo Mäkynen – con il progetto a suo nome, con The Five Corners Quintet e con gli Stance Brothers – o il pianista Jarmo Savolainen – con il suo trio. Sicuramente vedremo presto ad un livello internazionale il chitarrista Teemu Viinikainen o il sax tenore Manuel Dunkel. Non sono sicuro di quanto siano conosciuti siano i miei eccellenti colleghi compositori/pianisti Kari Ikonen e Samuli Mikkonen. La Sibelius Academy ha fatto un ottimo lavoro nel formare un gruppo di giovani talenti (il trombettista Verneri Pohjola, i percussionisti Joonas Riippa e Olavi Louhivuori, il pianista Aki Rissanen). Molti non saranno mai conosciuti al di fuori del loro paese, forse alcuni di loro non sentono neppure, il bisogno di questo. Probabilmente amano solo produrre roba di qualità e vivere nel frattempo. Ci vuole talento musicale, un grande lavoro da fare per tenere vivo questo talento, bisogna perseverare in ciò che credi sia buono, anche se non molte persone vi presteranno attenzione, e c’è la fortuna, essere nel posto giusto al momento giusto: sono necessarie tutte queste cose!