Foto: Andrea Buccella
Franco D’Andrea Ellington Trio @ Marni Jazz Club
Pescara, Marni Jazz Club – 28.2.2008.
Franco D’Andrea: pianoforte
Ares Tavolazzi: contrabbasso
Massimo Manzi: batteria
Premessa.
Il lavoro condotto in trio da Franco D’Andrea, Ares Tavolazzi e Massimo Manzi su Duke Ellington prende le mosse dalle registrazioni effettuate per la Philology nel 2005. Un lavoro di ricerca e di scavo filologico focalizzato sulle suites ellingtoniane: una quantità enorme di materiale di altissimo livello, nel quale si uniscono la figura carismatica del band leader, la complessa quanto organica macchina compositiva, la vicinanza di brani celeberrimi e temi preziosi e meno noti.
Ellington come stella polare.
Partiamo dalle parole dette dallo stesso Franco D’Andrea, nell’intervista realizzata per JCTube. Il discorso musicale si sviluppa e si svolge a partire dal lavoro di scavo e di analisi rivolto alle radici della poetica e della progettualità del compositore americano che ha portato alla realizzazione di tre cd, identificati dal titolo Duke Ellington Suites. Lo studio – pertinente e persistente del materiale – condotto da una delle personalità più lucide e profonde del jazz italiano porta alla luce un lavoro che non si ferma alla riproprosizione, alla agiografia: come già era stato per il disco pubblicato in piano solo su Monk, le cellule sonore e gli strumenti espressivi dell’originale diventano il punto di partenza per le interpretazioni del pianista e per il supporto della ritmica. La musica parte, approda e riparte sulle basi ellingtoniane, come veri e propri scali di una navigazione, e sviluppa le idee e i principi interpretativi del trio. Talvolta appaiono temi riconoscibili e celebri, come, ad esempio, Take the “A” Train: si tratta di snodi, connessioni tra le intuizioni che costellano il concerto in una concezione assolutamente stringente e compatta.
La sfortuna delle suites ellingtoniane.
La storia del jazz rivista dagli anni duemila: così definisce D’Andrea il percorso del progetto. L’esplorazione del corpus delle suites ellingtoniane era un’impresa possibile solamente in presenza di alcune ben precise circostanze: un pianista di altissimo livello e dalla progettualità lucida, un mentore appassionato, la disponibilità a rovistare, ragionare, porsi in modo critico (e autocritico) nei confronti di un repertorio importante e delle proprie certezze. L’idea di eseguire in trio il materiale scritto per l’orchestra e di scardinare le implicazioni originali, muovendosi in modo libero tra le diverse suites, porta il trio ad esporre, in modo esplicito, il proprio punto di vista: la possibilità di una esecuzione didascalica viene immediatamente abbandonata in favore dell’utilizzo dei brani. D’Andrea, Tavolazzi e Manzi portano, nelle frasi e nei passaggi, il risultato e le naturali implicazioni di una storia che evolve attraverso novità e richiami al passato, attraverso intuizioni e sintesi. La sfortuna delle suites ellingtoniane aiuta, in un certo senso, l’opera del trio: il materiale è scritto ed ha l’autorevole imprimatur di uno dei punti di riferimento della storia del jazz, ma, allo stesso tempo, permette il gusto della scoperta e della novità in alcuni casi. Ovviamente, il meccanismo del Franco D’Andrea Ellington Trio consente di dare conto delle evoluzioni sonore e musicali che si sono verificate negli ultimi quarant’anni, così come delle personalità e dei modi di essere dei singoli musicisti.
Il concerto.
Detto questo, alla direzione musicale fortemente intellettuale – coerente e precisa, ferrea e precisa nel perseguire i propri obiettivi – si unisce la capacità dei musicisti di rendere il percorso fruibile e comprensibile. Citando sempre D’Andrea, ma dall’intervista realizzata in occasione della presentazione alla Casa del Jazz di Roma di Dancin’ Structures, il pubblico partecipa, e attivamente, alla costruzione del concerto: il ruolo evocativo del musicista suscita emozioni che rimbalzano, a loro volta, sull’interpretazione e sulle scelte dell’esecutore. Il concerto diventa perciò il luogo di una costruzione aperta e fluida nella quale diventa importante il supporto di una ritmica attenta e capace di cogliere le intuizioni del solista e, nello stesso tempo, la forza e il principio ispiratore del percorso. Il pubblico e la stessa sala diventano strumenti per forgiare e vivificare le note e i pensieri: il concerto si snoda attraverso l’esposizione e la scomposizione dei temi e si creano gli spazi per inserire idee e intuizioni.
E l’appuntamento pescarese con il Franco D’Andrea Ellington Trio diventa così la disposizione d tutti questi elementi: un concentrato di spessore e rigore intellettuale e filologico, di spirito lirico e di trascinante interpretazione, di jazz coinvolgente e suonato nel modo migliore.
Tre musicisti intenti a valorizzare gli aspetti lirici e formali, energici e solistici di un repertorio importante e ben congegnato. D’Andrea, Tavolazzi e Manzi riescono a mettere d’accordo quegli spettatori che normalmente si trovano su posizioni opposte al termine di qualunque concerto, forse basta questa considerazione a dimostrare la qualità e la compiutezza del concetto espresso dal trio: la naturale convinzione e la profonda coscienza stillata in ciascuna nota, in ciascun passaggio hanno reso memorabile una fredda serata pescarese di fine febbraio.