Stefano Senni Saul Bass – Psychocandy

Stefano Senni Saul Bass - Psychocandy

El Gallo Rojo Records – 314-16 – 2008




Stefano Senni: contrabbasso

Enrico Terragnoli: chitarra

Dario Volpi: chitarra

Walter Paoli: batteria







La line up è, in pratica, quella del gruppo rock; i richiami e riferimenti si collocano, in buona parte, tra i solchi delle dischi storici della scena inglese dei primi anni ’70 – formazioni come Pink Floyd e King Crimson per dare delle coordinate di massima; le dinamiche sonore intrecciano improvvisazione e derive free, ritmi ostinati e sospensioni minimaliste.


Nei sette brani di Psychocandy, le chitarre elettriche, i suoni distorti, riff e ritmi ben cadenzati diventano spesso prevalenti. Il rock inteso come mezzo espressivo, come vocabolario sonoro per dare colore e vigore agli scenari disposti dal contrabbassista. Nel disco si alternano atmosfere sospese ed eteree a costruzioni ritmiche ostinate: la musica di Saul Bass si anima di una tensione elettrica – spesso ipnotica, ossessiva.


L’utilizzo delle chitarre – i suoni prolungati e plasmati dagli effetti, la carica e la potenza propria dello strumento – sposano con efficacia il disegno di Senni. L’accostamento dei suoni nelle derive libere e, soprattutto, nei momenti collettivi chiarisce e disegna l’atmosfera thrilling di molti brani: escursioni di insieme su ritmiche ostinate e crescenti, solcate da assolo taglienti. La caratteristica di molti dei passaggi di Psychocandy è proprio nella deriva montante, costruita aggiungendo piccoli tasselli alle strutture di partenza: una crescita di intensità che si rivela nella matrice sonora e negli sviluppi narrativi, come vedremo. L’abilità dei quattro è proprio nell’evocare e nell’esaltare i punti focali e le intenzioni della “regia” del contrabbassista: gli assolo dalle dinamiche taglienti, la grande compattezza del quartetto, la particolare forma delle parti ritmiche convergono e Saul Bass può sviscerare a suo piacimento le atmosfere che si vengono materializzando davanti le sue note.


Nel dare le coordinate dei riferimenti abbiamo citato Pink Floyd e King Crimson, ma la linea delle influenze può arrivare fino a certe esperienze di Tom Waits e richiamare i Primus. Ma, ovviamente, con una lista di nomi non si risolve molto: soprattutto prevale l’idea di utilizzare una dimensione melodica diretta e, dove serve, aggressiva e una struttura ritmica presente, forte fino all’ostinato, ma mai sovraccarica o barocca. In un certo senso, la componente melodica – anche attraverso l’intervento di contrabbasso e batteria – diventa prevalente nell’economia di Psychocandy e questo rende il lavoro filante e narrativo.


C’è una marcata dimensione cinematografica nel disco, infatti: una trama ricca di interrogativi e di attese. Come a segnare cambi di scena e dissolvenze, i vari momenti liberi di passaggio nei brani piè lunghi o in alcune introduzioni, sfruttati dal quartetto per esplorare le potenzialità espressive dell’incontro dei suoni delle due chitarre e della ritmica. Sono i momenti in cui i suoni si incontrano e scaturiscono, in modo graduale e naturale, le idee successive: attraverso vere e proprie dissolvenze, senza strappi, nuove linee si concretizzano intorno ai poli che scaturiscono dal’incontro delle linee dei quattro.


Nel corso del disco non mancano echi dalle musiche dei film di Quentin Tarantino, ma la citazione, forse, piè evidente è nella conclusione distesa e rilassata di Vimini: sembra quasi di veder scorrere i titoli di coda, in un cambio totale di scena e di ambientazione, una sorta di “vent’anni dopo”, giocato su ritmi solari e compassati.