Intervista a Niccolò Faraci

Foto: Dario Villa





Intervista a Niccolò Faraci

Varese – 12.1.2009

Abbiamo incontrato Niccolò Faraci, giovanissimo contrabbassista che si è già imposto da più parti come interessante esponente di una musica personalissima e molto ricercata, sempre al confine tra diversissimi elementi musicali e rifuggendo da qualsiasi facile etichettatura. Abbiamo fatto un quadro dei progetti in cui è attualmente coinvolto, approfondendo i temi topici del suo percorso di ricerca musicale, tra scrittura e improvvisazione, tra elettronica, tecnica del suono e strumento acustico.



Jazz Convention: Ci racconti qualcosa del tuo disco col trio Mowgli intitolato “Punto di fuga”, appena pubblicato?



Nicolò Faraci: È un progetto di jazz “europeo”, con un’impronta che si stacca dalle radici blues o afroamericane del jazz, per indagare aspetti più legati alla scrittura della musica, o all’improvvisazione, ma concependo questa secondo canoni più “nostri”. Pur rimanendo in ambito jazzistico, insomma, abbiamo affrontato problemi di altri generi musicali, come ad esempio il rock, all’interno di una formazione jazz: nel disco suonano Lorenzo Paesani al Fender Rhodes e al pianoforte acustico, Alessandro Blasi alla batteria, mentre io suono il contrabbasso. C’è anche Claudio Fasoli, che è ospite al soprano: è uno di quelli che hanno contribuito di più alla nascita del progetto Mowgli. Al centro della nostra musica c’è, a mio avviso, la personalità dei musicisti: il lavoro di preparazione è stato lungo, perché abbiamo cercato di costruire una macchina espressiva in grado di rappresentare i nostri punti di vista sulla musica, attraverso il linguaggio jazzistico, che in qualche modo ci accomuna. Siamo già riusciti a portare il progetto dal vivo in alcuni festival, come ad esempio Pescara Jazz, e tra un po’ avremo una tournée in vari jazzclub.



JC: Tu spazi molto anche con la sperimentazione sonora: qui invece sei rimasto in ambito acustico


NF: Sì, qui sicuramente il lavoro è stato più che altro incentrato sul problema della scrittura, e quindi la formazione acustica andava benissimo. Abbiamo cercato di dare un’estetica “Mowgli”, un’estetica propria del gruppo, che comunque si declina differentemente a seconda che si suoni musica scritta da Faraci, o da Paesani… Si può dire che il nostro sia il genere “mowgli”, che è una somma di caratteristiche disparate, anche rock, drum’n’bass e altro… Come provocazione, potrei dire che in tutto il disco non è c’è una sola battuta di swing. Siamo, si può dire, in cerca di noi stessi, perché la forza della musica sta nel rappresentare ciò che il musicista è: è così che si riesce ad essere originali, e non imponendosi a tutti i costi di esserlo. Comunque, è un lavoro che ascoltiamo tutti con grande piacere, e questo è già un grande traguardo. Anche in altri ambiti del mio lavoro porto avanti un discorso di analisi dei rapporti tra scrittura e improvvisazione che vede in “Mowgli” un suo punto cardine.



JC: Riesci a darci un po’ una panoramica dei progetti in cui si coinvolto attualmente?


NF: Ho in cantiere il secondo disco del mio gruppo chiamato “Project Delos”, che abbiamo appena finito di registrare: qui il progetto è incentrato sull’integrazione di sintesi sonora e scrittura. Non c’è una sola misura di improvvisazione, è interamente scritto. Ha una forma breve, come si usa oggi (mi viene da pensare ai dischi cortissimi dei Radiohead), ma i brani hanno la caratteristica di andare a toccare ambiti particolari della musica. Ad esempio, mi sto interessando alla scrittura multifocale: le composizioni sono studiate perché l’ascoltatore possa, ai vari ascolti, focalizzarsi su aspetti diversi, che si intrecciano in continuazione. È un lavoro intenso di ricerca, sia sulla scrittura, sia sulla sintesi del suono, soprattutto in relazione allo strumento acustico. Sono un fanatico del trombone, e Andrea Esperti, che suona questo strumento nel disco, è stato messo davanti a delle partiture scritte per trombone e sintetizzatore. La parte per le tastiere, anche per il Rhodes, si stacca insomma dal retroterra “psichedelico”, improvvisativo, ma si basa sulla ricerca timbrica degli intrecci con gli strumenti acustici. Non sappiamo ancora la data di pubblicazione, né l’etichetta, sia perché il lavoro di missaggio è massiccio, sia perché volevamo concederci il privilegio di un’uscita su vinile, con un packaging molto curato. Questi, comunque, sono campi che esploro anche con un’altra formazione, un ottetto di strumenti (ottoni, vibrafono, pianoforte elettrico, contrabbasso e batteria) che abbiamo voluto chiamare “Mini-Ufo”, anch’esso assolutamente non improvvisato. L’idea era omaggiare compositori come John Williams, o Jerry Goldsmith che si sono occupati di musica per film. È però ancora un progetto in fase iniziale. Tra i miei desideri c’è quello di sdoganare il sintetizzatore anche al di fuori della pura improvvisazione, dandogli dignità timbrica anche al di fuori della “psichedelia”. Per i progetti più legati all’improvvisazione, invece, è in cantiere il trio MEF, con Massimo Manzi e Andrea Esperti, che propone musiche con scrittura a canovaccio: ho qui voluto separare nettamente scrittura e improvvisazione, e qui la scrittura è molto aperta. È inoltre di prossima pubblicazione il disco “Terre lontane”, con Michel Godard, Francesco D’Auria, Maurizio Aliffi e Marco Bianchi: è l’inizio della mia collaborazione con Godard, un grande tubista francese. Come puoi capire, le possibilità timbriche sono estese, anche perché D’Auria suona l’Hang, un metallofono simile allo steel drum.



JC: Nelle tue ricerche nell’ambito della scrittura musicale, c’è qualche compositore da cui trai particolare ispirazione?


NF: Potrei citare Varése, Ligeti, ma anche sicuramente Frank Zappa: sono musicisti che hanno sempre tentato di rendere la musica “stratificata” su più livelli. È una cosa che succede anche nel jazz, ma qui tutto è stato studiato a tavolino, alla ricerca della costruzione di una macchina timbrica perfetta. Attualmente, per comporre, prima di tutto costruisco una metodologia che guidi il lavoro: ad esempio, che ci sia la possibilità di far interagire strumenti acustici e elettronici. All’interno di queste linee guida posso poi spaziare in moltissime direzioni, anche grazie all’uso della sovraincisioni e di altri mezzi “top secret”…!



JC: Per quanto riguarda le incursioni in ambito elettronico hai dei punti di riferimento?


NF: In effetti ho iniziato da un po’ una collaborazione con una persona che chiamare “tecnico del suono” sarebbe decisamente riduttivo. Lo chiamerei quasi “producer”: è Attila Faravelli, il musicista di musica elettronica che ha collaborato anche nel disco “Q”. Si occupa della registrazione di tutti i miei dischi, ed è una di quelle persone in grado di utilizzare un microfono e il set-up di uno studio come un vero e proprio strumento. Lui mi ha svegliato dal dire “arrivo in studio, registro”, insegnandomi a vedere le possibilità della tecnica sonora: mi ha portato davanti a problematiche che, se affrontate prima, danno grandi possibilità espressive. I brani stessi ora li penso in funzione anche delle caratteristiche dei meccanismi di registrazione e di missaggio. La scelta dei microfoni, dei preamplificatori, o addirittura del nastro per l’incisione consentono possibilità enormi.



JC: In effetti in genere i musicisti non pensano molto a queste cose.


NF: No infatti. Però a mio avviso bisognerebbe cominciare a pensare alle metodologie di registrazione come fossero possibilità di coloritura della musica. Lo studio dove si registra influenza moltissimo il colore definitivo del disco. Attila Faravelli, devo dire, è sicuramente l’influenza più forte che ho sentito su di me negli ultimi anni, per quanto possa sembrare strano citare qualcuno che non sia direttamente uno strumentista. Non bisogna ripudiare la tecnologia (è un po’ lo stesso discorso che faccio coi sintetizzatori), ma imparare a sfruttarne al meglio le possibilità. Un’altra cosa che ho in programma adesso è la scrittura per orchestra sinfonica, ma, come si può immaginare, è un progetto che richiede fondi, ma che dovrebbe risultare molto interessante.



JC: Visto che mi parli di questo progetto, e che prima hai citato John Williams, non posso non chiederti se ti piacerebbe occuparti di una colonna sonora…


NF: Chiaramente sì. Non mi è mai successo, ma gran parte di quello che scrivo nasce dalla visualizzazione di qualcosa. Alla chiusura dell’ultima nota sul pentagramma il titolo del brano è immediato, proprio perché la musica nasce da qualcosa che accade intorno a me. Ho scritto molte volte di fantascienza, e mi piacerebbe lavorare sia col teatro e con il cinema. Uno dei miei più grandi sogni è quello di realizzare un cortometraggio in computer grafica da me sceneggiato: penso che sia una delle cose più divertenti che si possano fare. John Williams sicuramente si diverte tantissimo, vivrà centocinquant’anni.



JC: Hai scelto di muoverti al di fuori dell’estetica quotidiana. Quanto è difficile trovare chi ti supporti? Ma, anche banalmente, chi ti faccia suonare, o incidere un disco?


NF: È un’ottima domanda, specialmente per l’anno 2009… È facile suonare dove si hanno conoscenze dirette, ma è quasi impossibile emergere in una realtà in cui vengono pubblicati cinquanta dischi al mese. Secondo me bisogna cominciare a pensare che ci sono etichette che pubblicano qualsiasi tipo di musica per qualsiasi tipo di artista… Bisogna starne alla larga. Abbiamo pubblicato “Punto di fuga” con la Double Stroke Records, perché è un’etichetta che pubblica solo ciò che vuole, e dopo mesi e mesi di trattative. Ha un catalogo ristretto, ma tutte le sue pubblicazioni piacciono all’editore. Molte etichette non possono difendere i loro progetti, perché loro stessi non hanno accuratamente vagliato la qualità di ciò che proponevano.



JC: Forse da parte delle etichette c’è a volte la tendenza a sopperire la mancanza di vendite con l’aumento esponenziale dei titoli in catalogo…


NF: È senz’altro così, ma è un errore gravissimo. Ci sono magazzini e magazzini pieni di dischi invenduti. Bisognerebbe, per le pubblicazioni meno convincenti, rivolgersi all’ambito on-line, che non abbatte alberi e non spreca inchiostro, pur avendo la possibilità di essere visibile a tutti. Oggi si può stampare un disco di mediocre qualità in casa, e quindi le etichette dovrebbero studiare di più la grafica, la linea editoriale e così via. Certi editori guardano più alla Siae che alla musica… Il segreto è entrare nei piccoli “club” che guardano alla qualità della musica, per riuscire a “farsi sentire”, a meno naturalmente che non si riesca ad entrare in contatto con grandissimi canali di distribuzione. È questa però una direzione che per ora non mi coinvolge, vista la particolarità dei miei progetti. Forse con la scrittura per orchestra le cose cambieranno, ma è per il futuro. Nei prossimi anni tenterò di interagire con voci recitanti, e con la scrittura di racconti direttamente “concepiti” con la musica. Un legame con la narrativa (soprattutto la fantascienza) nelle mie opere c’è sempre stato, ma sarà ancora più forte: penso che le colonne sonore dei film di fantascienza di un certo periodo (basta guardare la musica de “Il pianeta delle scimmie” appunto di Jerry Goldsmith) fosse molto avanguardistica, anche nel rapporto con l’effetto e il “rumore”.



JC: Cosa pensi del rapporto dei giovani con la musica? Vedi la situazione futura rosea oppure no?


NF: Sicuramente oggi i giovani entrano subito in contatto con la didattica musicale, molto più diffusa di un tempo, e in molti hanno così gli strumenti per fare qualcosa di buono. Penso che, in questo momento, in qualche scantinato di New York o in Giappone ci siano dei giovani che fanno cose estremamente interessanti. Mi sto accorgendo sempre più che, anche in Italia, ci sono molto giovani anche sotto la trentina come me, che sono assolutamente fenomenali, e che andrebbero scoperti e incoraggiati. Secondo me, quello che manca un po’ è la figura del mecenate… Manca da qualche secolo, ma dovrebbe tornare! I soldi sono limitati, e qualcuno in grado di gestirli bene ci vorrebbe davvero.



JC: A proposito dell’oriente, hai fatto anche un tour in Cina: com’è stato?


NF: Lì generi di musica come il nostro sono totalmente sconosciuti, ed è stato bellissimo. Ci siamo trovati col gruppo “Q” a suonare davanti a duemila persone (i loro “piccoli” teatri sono grandi come La Scala…) una musica che non era mai stata suonata prima, con i lati positivi e negativi che questo comporta. Sicuramente c’è grande attenzione e sete di cultura. Lì, ogni nostro concerto era organizzato con grande attenzione della stampa, in ogni senso un “grande evento”. Per un musicista porsi davanti a un pubblico del genere è un’esperienza unica, è un pubblico senza preconcetti. Verrà pubblicato nei prossimi mesi il “Live in Cina” che abbiamo registrato in quattro diverse location, compresa l’Università di Pechino… verrà pubblicato dall’etichetta “Radio SNJ”, che si occupa anche del disco di MEF Trio.