Foto: Roberta Guzzetti
Chiasso Jazz Festival ’09: Buchi Neri
“Nel vortice di nuove energie musicali”: questo l’azzeccato sottotitolo della dodicesima edizione del jazz festival di Chiasso, ormai rodata realtà della svizzera italiana. Ormai rodata da diversi anni è anche la formula del festival, riuscitissima: tre concerti a sera con dj set finale (dalle 20.30 alle 3 del mattino circa), formula per ascoltatori super-resistenti ma anche portatrice di un certo “ricambio generazionale” col passare delle ore, che va di pari passo con la musica proposta: una soluzione che accontenta tutti, davvero efficace. Ma conviene parlare di musica.
Anteprima del festival sabato 7 febbraio al teatro sociale di Como, per un concerto tutto al femminile che ha avuto come protagonista il gruppo RaTraBa, guidato dalla trombettista Hilaria Kramer (con Co Streiff al sassofono contralto, Karoline Hoefler al contrabbasso e Beatrice Graf alla batteria), che ha proposto un omaggio a Ornette Coleman, riprendendone brani più o meno noti e reinterpretandoli con una certa aderenza al testo, pur non scordando la personalità, soprattutto da parte del leader e della estrosa batterista, dotata di uno stile percussivo personale e inedito.
Il festival vero e proprio ha invece avuto inizio il giovedì successivo, 12 febbraio: Erika Stucky & Roots of Communication (Erika Stucky, voce, fisarmonica e… pala da neve; Robert Morgenthaler e Jean-Jacques Pedretti, entrambi al trombone, al corno delle alpi e alle conchiglie; Nelson Schaer, batteria) hanno sconvolto (letteralmente) i presenti con una rivisitazione pirotecnica (già l’organico può dare un’idea) di yoedel svizzeri e di canzoni pop, distrutte (anche qui, letteralmente) e filtrate attraverso la contagiosa ironia della Stucky, la quale per altro ha una voce potente e convincente e che sicuramente non ha scelto a caso i fiatisti, data la loro eccellente tecnica e versatilità. Un progetto audace e inaudito (in tutti i sensi), portato a termine con grande successo: giù il cappello. La serata di giovedì è proseguita con un’altra sorpresa: la Squeezeband di Reto Weber (Reto Weber, percussioni, Nino G: human beatbox, Daniel Hirschi: chitarra, Samuel Kuehni: basso; special guest Chico Freeman: sassofoni, voce), in un progetto che vede intrecciarsi la tecnica perfetta dello stesso Weber, campione alle percussioni e in particolare del suggestivo hang (che non si vede spesso) con i sassofoni melodici di Chico Freeman e con la creatività della “batteria umana” Nino G: anche stavolta un progetto audace, che non ha avuto nulla da invidiare al primo. Complimenti dunque non solo ai musicisti, ma anche ai lungimiranti organizzatori, per scelte così audaci e ben fatte, che (c’è parso) hanno comunque trovato ottima risposta da parte del pubblico. In conclusione, dj-set di Dj Gino, collezionista di vinili ormai non più giovanissimo che ha regalato a chi è rimasto per ascoltarlo vere perle da lacche ormai introvabili.
Per la seconda serata si è passati da tre a quattro concerti: i primi due concerti interamente dedicati alle rivisitazioni contemporanee dei vari aspetti del free jazz. In apertura, il quartetto del lodatissimo Matthew Shipp (con Daniel Carter ai sassofoni, Joe Morris al contrabbasso e Whit Dickey alla batteria), portatore di una tecnica pianistica invidiabile innestata però forse su un free di concezione un po’ stantia, per quanto certi momenti (ad esempio un crescendo verso la fine del concerto) hanno messo in luce tutta la maestria dei musicisti coinvolti. Più convincente invece il trio successivo, con Dave Leibman ai sassofoni e al pianoforte, Jean-Paul Celea al contrabbasso e Wolfgang Reisinger alla batteria: in questo caso si è trattato di un jazz dalle forme liberissime (tanto libere da non essere necessariamente “free”) condotto quasi sempre in punta di strumento, interamente incentrato sulle voci individuali dei tre musicisti, per un vero concerto alla pari. Terzo momento della serata con The Mungolian Jet Set (Knut Saevic, elettronica, tastiere; Paal “Strangefruit” Nyhus: turntables, voce; Alex Gunia: chitarre; Peter Baden: batteria, elettronica), per un concerto dal sapore electro molto ballabile ma anche intriso di sonorità post-rock e pop, con una presenza scenica “eclettica”: certo non si è trattato di musica per palati jazz “vecchio stampo”, ma l’originalità della proposta meritava un ascolto da tutte le parti. Entusiasta naturalmente soprattutto il pubblico giovanile, che ha poi potuto continuare a ballare col dj-set dello stesso Dj Strangefruit.
Serata conclusiva quella di sabato 14, aperta dal quartetto di Franco D’Andrea (con Andreas Ayassot ai sassofoni, Aldo Mella al contrabbasso e Zeno de Rossi alla batteria), esibizione che ha confermato le eccellenti doti di questo musicista non solo nel suo pianismo inedito e coinvolgente, con l’attenzione melodica che lo caratterizza pur nella modernità del discorso musicale, ma anche nello scegliersi i “compagni di viaggio”, tutti di eccellente livello: questo quartetto di D’Andrea è tra le realtà jazz più interessanti dell’Italia contemporanea, con buone probabilità. In seconda battuta è stata invece la volta del titanico David Murray “Black Saint” Quartet, con un concerto dedicato ai tempi d’oro dell’etichetta di cui riprende il nome e al World Saxophone Quartet (e composto dallo stesso Murray al sassofono contralto e al clarinetto basso, Lafayette Gilchrist al pianoforte e Jaribu Shahid al contrabbasso), concerto che ha regalato al pubblico oltre un’ora e mezza di accenti post-bop travolgenti e quasi violenti mischiati alle “urla” che hanno reso famoso il sassofono di Murray: una miscela che non ha tardato ad esplodere, dando vita ad uno dei concerti più esaltanti del festival. La chiusura della serata (a meno del particolare dj-set a tarda ora, che ha visto Mario Conte alternarsi tra elettronica, djing e… telefonini, e Alessandro Quintavalle al basso elettrico) è stato affidato ad un gruppo che, come il precedente The Mungolian Jet Set, ha puntato tutto sulla costruzione di una elettronica danzereccia ma non banale, concepita in matrimonio con lo swing dei twenties: i francesi Caravan Palace (Hugues Payen: violino; Arnaud De Bausredon: chitarra; Charles Delaporte: contrabbasso elettrico; Camille Chapelière: clarinetto; Antoine Toustou: elettronica; Sonia Fernandez Velasco: voce) hanno fatto ballare persone di tutte le età col loro particolare sound.
In definitiva questa edizione non solo ha brillantemente rispettato il suo sottotitolo, ma ha anche saputo coniugare massiccia presenza di pubblico, avanguardia della musica proposta e l’attenzione anche dei più giovani: ma allora non è impossibile!