Le rotte della Musica: intervista a Jean-Marc Padovani

Foto: internet





Le rotte della Musica: intervista a Jean-Marc Padovani



Cominciamo questa settimana, con l’intervista a Jean-Marc Padovani, la pubblicazione di alcune delle interviste che hanno costituito il materiale di partenza de Le rotte della musica, libro realizzato da Fabio Ciminiera e pubblicato da Ianieri Edizioni. Il volume è un racconto corale, animato da musicisti, organizzatori, fotografi ed altri protagonisti: personaggi anche distanti tra loro per sonorità e intenzioni, ma uniti dalla ricerca di sintesi originali. Le rotte della musica ospita ottanta protagonisti della vita musicale dell’area mediterranea per un affresco attuale e, soprattutto, aperto a tante prospettive diverse. Le rotte della musica è anche su myspace: www.myspace.com/lerottedellamusica

Fabio Ciminiera Partiamo da Liqaa. Come hai costruito questo quartetto e quali sono il repertorio e le direzioni espressive della formazione?


Jean-Marc Padovani: Da molti anni, il mio lavoro mi ha portato a costeggiare sempre più di frequente musiche molto diverse dal jazz, che avevo praticato fino dall’inizio della mia carriera. Con Tres horas de Sol sono entrato in contatto con il flamenco, con Sud ho potuto avvicinarmi alle musiche dell’area mediterranea, con la Minotaure Jazz Orchestra abbiamo affrontato le sonorità del Paso Doble, con Jazz Angkor ho suonato la musica tradizionale Khmer e, infine, con il quartetto Chants du Monde, ho sviluppato un concetto di scrittura che si ispira alle musiche tradizionali. Lo stesso spirito è stato predominante nella concezione di Liqaa: incontro, più che fusione, della musica arabo-andalusa proposta da Ali Alaoui e della musica gnawa di Maggid Bekkas con la tradizione dell’improvvisazione alla quale fanno riferimento i jazzisti e che, nel gruppo, viene rappresentata da me e da Philippe Léogé. Il repertorio del quartetto è formato da composizioni di ciascuno di noi: la struttura del nostro concerto rappresenta idealmente una passeggiata musicale tra i poli della musica scritta (brani tradizionali o nostre composizioni), costellata da improvvisazioni, durante le quali ciascuno di noi può esprimere il proprio senso musicale e le qualità di solista.



FC: Liqaa vi permette di combinare i suoni della tradizione del jazz con i suoni della tradizione del Marocco. Qual è il mélange che si realizza sul palco?


JMP: Sono due i piani sui quali si incontrano le musiche: ritmico e armonico. In un primo momento abbiamo lavorato in trio con Ali Alaoui alle percussioni e Philippe Léogé al pianoforte e io ai sassofoni, partendo dai temi della musica arabo-andalusa. Io e Philippe abbiamo armonizzato e dato maggior risalto ad alcune parti di questi temi, mantenendo però ciò che conferisce loro un carattere specifico: l’aspetto modale. Abbiamo inoltre lavorato sugli spazi da utilizzare per l’improvvisazione e da affidare ai vari musicisti, allo stesso modo con cui si lavora con gli standard, cercando di evitare una successione monotona di chorus.



FC: Liqaa significa incontro e, come dicevi in precedenza, questo non è il primo gruppo in cui incontri musicisti di provenienza o formazione diversa. Qual è stato il percorso della tua formazione e dei tuoi incontri musicali?


JMP: Sono nato nel sud della Francia, ho fatto il Conservatorio ad Avignone e poi ho completato gli studi a Marsiglia e molto rapidamente ho cominciato a lavorare nell’ambiente musicale regionale, apprestandomi a diventare un musicista di professione. Sono passato di strumento in strumento – pianoforte, chitarra, basso – per approdare infine al sassofono che è diventato il mio strumento prediletto. Il mio interesse per le musiche tradizionali – in particolare per quelle del Mediterraneo – è cresciuto attraverso gli incontri ma soprattutto è scaturito dall’idea che un ragazzo di Avignone non potesse considerare come propria matrice la storia del jazz ma, piuttosto, trovare nel vocabolario del jazz un mezzo che gli permettesse di rivisitare le musiche della propria tradizione. Già negli anni settanta, con un trombettista della Francia del Sud, Michel Marre, avevamo dato vita a una formazione chiamata Cossi Anatz – come state in occitano. La formazione era costituita da jazzisti, ma anche da due percussionisti, di cui uno marocchino, e da un suonatore di cabrette, la cornamusa occitana: eravamo una sorta di piccola fanfara. E il gruppo già presentava una sua particolare maniera di esprimersi, attraverso i temi delle musiche tradizionali: abbiamo rivisitato delle bourrées, avevamo dei temi che richiamavano le sonorità dell’Africa del Nord oltre a del materiale originale. Eravamo molto influenzati da gruppi come l’Art ensemble of Chicago e dalle esperienze di Rollins e di Mingus, che si erano interessati al calypso, il primo, e alle musiche messicane, il secondo. Abbiamo dato vita a questa orchestra nel momento in cui molti musicisti tornavano nelle loro regioni di origine: Bernard Lubat era tornato a Uzeste, vicino Bordeaux; Henri Texier aveva creato un festival in Bretagna; François Tusques ha formato un gruppo con giovani musicisti bretoni e così via. E, in quel momento, sono stato tra quelli che hanno incrociato la propria essenza di musicista di jazz con la voglia di confrontarsi con le musiche tradizionali: ho raccolto e rilanciato lo spirito di quanto avveniva in Francia allora. Più tardi con Claude Barthélémy ho dato vita a un trio dalle forti venature rock, con il quale suonavamo dei temi spagnoli, come La Passionaria, i canti della guerra di Spagna che mi avevano colpito enormemente quando erano stati utilizzati da Charlie Haden per la sua Liberation Music Orchestra. Ci sono a tutti livelli, credo, dei ponti tra le diverse culture: sono arrivato, diversi anni dopo, nel 1987, a creare Tres horas de sol, uno spettacolo che mi ha fatto conoscere nel mondo del jazz. A mio avviso è stato uno spettacolo emblematico: mettere sul palco di un festival di jazz come Banlieues Bleues, dei musicisti di flamenco e dei jazzisti. È stata la prima volta che un festival correva un rischio simile ed è stata un’idea molto originale. Nello spettacolo c’erano un quartetto di jazz – Louis Sclavis, Claude Barthélemy, Youval Micenmacher ed io – e quattro musicisti di flamenco: il concetto di base era quello di sostituire la ritmica di un gruppo di jazz con la ritmica tradizionale del flamenco, sostituire il batterista con dei musicisti che battessero le loro mani, con il linguaggio tipico del flamenco. La domanda era: mi metto al servizio di questa idea in quanto compositore o interprete?… spesso e voglio insistere su questo punto, per me molto importante, sono partito da idee semplici come questa, per le mie intuizioni musicali.



FC: Incontri anche per quanto riguarda i suoni. Nei brani che è possibile ascoltare su myspace, ma anche nella lista dei musicisti che lavorano con te, ci sono strumenti e, di conseguenza, modi di suonare differenti. Qual’è stata la ragione che ti ha portato di volta in volta a scegliere gli strumenti che dovevano fare parte del vocabolario sonoro del gruppo?


JMP: Mi sono lasciato guidare soprattutto gli incontri personali con i singoli musicisti piuttosto che da scelte strumentali deliberate a tavolino. Sicuramente i timbri di certi strumenti, come ad esempio lo zarb, mi hanno interessato immediatamente, soprattutto in un quartetto senza basso come era all’inizio Chants du Monde. Il ricorso alla vielle à roue in alcuni miei dischi si spiega con il lato espressionista dello strumento, legato ai suoi rumori, ai suoi scoppi e ai suoi cigolii, che diventano parte integrante dello stile di ciascun musicista… come un violoncello un po’ pazzo!



FC: Tu rivendichi una musica che abbia superato la questione delle influenze. D’altro canto oggi, il métissage non è più un obiettivo da raggiungere o una pratica da scoprire, quanto un fatto compiuto per i musicisti che vogliano utilizzare linguaggi differenti. Nella tua opinione i due concetti si completano? E, in generale, qual è il tuo pensiero al riguardo?


JMP: Io rivendico sin dall’inizio del mio interesse per le musiche tradizionali l’incontro più che la fusione. La world music consiste sempre di più nel mettere dei ritmi binari su temi tradizionali e in questo non vedo nessun ricerca: anzi si tratta di una vera e propria laminatura ritmica, una semplificazione del tutto riduttiva, in cui la musica tradizionale esce perdente.



FC: Ho letto, su Citizen Jazz, l’articolo sulla tua residenza al festival di Colomiers, nella quale ti sei esibito con Liqaa. C’è stata anche un’importante esperienza didattica…


JMP: Lo scambio con i musicisti delle giovani generazioni è sempre molto importante. Lo spazio dedicato dai media al jazz è poco, se non addirittura nullo: possiamo conquistare nuovi appassionati, soprattutto tra i giovani, solo andando verso il pubblico, spiegando quelli che sono i nostri percorsi stilistici ed espressivi. L’aspetto modale dei temi tradizionali permette ai giovani musicisti di lanciarsi più facilmente nelle improvvisazioni e in modo più generoso di quanto consentano le griglie del jazz che necessitano di un bagaglio teorico e tecnico più complesso. L’improvvisazione totalmente libera può essere uno strumento da utilizzare, ma spesso si rivela un freno o un limite per dei giovani che non hanno mai praticato l’improvvisazione.



FC: Più in generale qual’è la strada che hai scelto di percorrere per comunicare attraverso la musica e come è possibile fare conoscere al maggior numero possibile di persone a bellezza e la necessità di un’arte vivente come il jazz e le musiche di improvvisazione?


JMP: Jean Vilar, il grande regista francese, diceva di voler realizzare un “teatro elitario per tutti”. Essere se stessi, il più possibile, è la maniera migliore per portare il pubblico a conoscere ed apprezzare il jazz, non quella di andare verso la mediocrità o abbassare il livello.



FC: Qual è il tuo punto di vista sula scena del jazz e delle musiche di improvvisazione in Francia, oggi?


JMP: Un migliaio di virtuosi, super-tecnici, un centinaio di musicisti che hanno qualcosa da dire e una decina che suonano nei rari posti che restano.