ECM Records – 2046 – 2009
John Surman: sax baritono, sax soprano
John Abercrombie: chitarra
Drew Gress: contrabbasso
Jack DeJohnette: batteria
Mirabile compositore, sassofonista dalla voce creativa inimitabile e riconoscibilissima, oggi John Surman raccoglie e dispiega un’altra ennesima fase della sua luminosa carriera. Non più dischi in perfetta solitudine come i gloriosi Private City, A Biography Of The Rev. Absalom Dawe o Road To Saint Ives, ma un nuovo quartetto composto dal stelle assolute del firmamento jazzistico di sepre. Un disco spumeggiante questo Brewster’s Rooster nel quale gran parte del controcanto surmaniano è costituito da un alter ego di lusso, quel John Abercrombie dalla voce repentina e sibillina, dal tratto chitarristico sinuoso e sempre ricco di complessa fantasia virtuosistica, posto al centro della formazione non come semplice armonizzatore di suoni ma quasi come un secondo protagonista del progetto. Altra presenza intensa e spettacolare con quel suo colpo netto e le inimitabili invenzioni ritmiche è quella di Jack DeJohnette, co-leader del polistrumentista inglese in altre tre celebri incisioni, uomo con l’Africa nel cuore e la modernità di un drummer (pianista) poetico e risoluto. Soprattutto quando per poesia s’intende una microcomposizione che prolunga il già complesso caleidoscopio narrativo del leader. Altra presenza che è conferma di teorie e centralità della formazione è Drew Gress che senza timore reverenziale inventa, svetta, canta ad espiare il gesto estetico, talvolta corale ma agile nelle variabili strutture surmaniane. Agilità e freschezza timbrica esaltano il nuovo corso di un Surman “diverso” nella logica complessiva dell’estensione del quartetto ma sempre musicista grande e uguale a se stesso. Anche quando si tratta di gioire dei suoi tratti ruvidi e rugginosi del suo baritono, nei fragili incantamenti del soprano che con delicatezza e sobrietà sottolineano la purezza dello splendido sassofonista che tutti noi conosciamo. Inutile evidenziare una composizione rispetto ad altre. Incluse la classicità eterna di Chelsea Bridge di Billy Strayhorn, affascinanti fluenti melodie, stop & go calcolati alla perfezione, temi divertenti, altri trascinanti che s’incontrano a metà del brano, mirabili interventi solisti dell’intera band. Tutto a esprimere un lavoro di ottima manifattura, elegante e informale quanto basta per renderlo tra le più belle incisioni dell’anno in corso.