Le rotte della Musica: intervista a Akim El Sikameya

Foto: Cécile Cée








Prosegue, con l’intervista a Akim El Sikameya, la pubblicazione di alcune delle interviste che hanno costituito il materiale di partenza de Le rotte della musica, libro realizzato da Fabio Ciminiera e pubblicato da Ianieri Edizioni. Il volume è un racconto corale, animato da musicisti, organizzatori, fotografi ed altri protagonisti: personaggi anche distanti tra loro per sonorità e intenzioni, ma uniti dalla ricerca di sintesi originali. Un affresco attuale e, soprattutto, aperto a tante prospettive diverse del panorama musicale dell’area mediterranea. Le rotte della musica è anche su myspace:

www.myspace.com/lerottedellamusica



Fabio Ciminiera. Partiamo dal tuo percorso musicale. La tua ricerca è animata, sin dall’inizio, dall’influenza di musiche diverse. Qual’è la tua filosofia musicale e come l’hai applicata nelle tue diverse esperienze, anche in quelle dei tuoi esordi?



Akim El Sikameya. La mia filosofia musicale è la filosofia che ha regnato in Andalusia per 700 anni e che unisce la cultura musulmana, ebrea e cristiana sulla base dello scambio, della reciproca influenza, del rispetto e della tolleranza. La musica che io creo oggi è ispirata alla musica arabo-andalusa tradizionale di quel periodo e influenzata dal mio vivere quotidiano e dall’ascolto delle musiche di oggi. A mio avviso, la musica arabo-andalusa è già di per sé un incontro, grazie al suo viaggio dalle corti degli Abassidi, con le relative influenze greche e persiane, alle corti degli Omayyadi in Andalusia, fino al suo ripiegamento nel Maghreb nel 1492 e al contatto avvenuto in questa regione con le influenze ottomane. Seguendo questo spirito quando compongo un brano, cerco di non cadere nel copia e incolla, ma cerco di impegnarmi alla ricerca di un contenuto che dia forza e spinta alla musica. La conseguenza è che un’opera concepita in questa maniera potrà essere universale e atemporale o, quantomeno, non avrà rughe.



FC. La tua musica rivela la costante e precisa volontà di superare tutte le barriere. Come si è evoluto questo aspetto all’interno dei tuoi te cd?



AES. Io ho frequentato il conservatorio arabo-andaluso a Orano, la città più cosmopolita dell’Algeria per sedici anni. Nel 1990, ho formato il gruppo El Meya con il quale abbiamo ripreso i canti popolari del Marocco, il Rai e la musica arabo-andalusa rivisitata con l’aggiunta di accenti moderni e con l’apporto della chitarra flamenco e del pianoforte. Nel 1999, ho realizzato il mio primo disco, Atifa/Oumi: è stata la mia prima prova e, vedendolo ora, mi rendo conto che era un disco ancorato alla tradizione, molto acustico, un tocco molto leggero di modernità. Ho concepito il disco come una raccolta di canzoni, invece che con una lunga Nouba di un’ora. Ho ripreso dei brani tradizionali ai quali ho aggiunto altri arrangiamenti, soprattutto rivolti al flamenco, e qualche tentativo di composizione, ma, senza dubbio, sono rimasto molto vicino alla tradizione. E’ veramente difficile trovare il proprio cammino dopo aver passato sedici anni in conservatorio, seduto, in giacca e cravatta. Per prima cosa, mi sono alzato, sempre tendendo il violino sulle ginocchia, e questa cosa ha impressionato molto sia il pubblico che i colleghi: ma nella mia testa, rimanevo sempre un andaluso del quindicesimo secolo. Per il secondo album, Aini/Amel, ho cercato di scrivere tutti i brani, aggiungendo altri colori, esplorando altri orizzonti, come la bossa nova, la musica africana, la musica celtica e via dicendo. In questi giorni sta uscendo il mio terzo disco, Un Chouia d’amour, un album che potrei definire molto personale nel senso che, per la prima volta, ho scritto dei testi nel dialetto arabo moderno e ho composto tutte le melodie. Ho lavorato con Philippe Eidel e mi trovo molto a mio agio con le sue concezioni estetiche: riesce a trascrivere le tue idee e renderle moderne senza snaturarne i principi. E’ un album moderno ma, allo stesso tempo, è ancorato alla tradizione: è acustico, ma con delle dinamiche interessanti, utilizziamo strumenti tradizionali, come la mandola, il charango, il bouzouki, il mio violino, la fisarmonica, la chitarra flamenco. Ho cercato di mettere altri colori e, soprattutto, di registrare il disco in presa diretta: le takes sono state fatte dal vivo, abbiamo suonato tutti nello stesso momento. Ho voluto dei musicisti di placo, attivi e reattivi, e questo ha portato al lavoro calore e dinamiche.



FC. I suoni e gli strumenti seguono in un certo senso lo stesso trattamento: parliamo del tuo processo di arrangiamento e del tuo ruolo di regista musicale.



AES. Ho sempre utilizzato violino e chitarra flamenco nei tre progetti. Sono strumenti che mi guidano, adoro la chitarra flamenco, la sua forza ritmica e armonica e, contemporaneamente, la sua dolcezza. Sono queste contraddizioni, queste tensioni che mi fanno reagire. Io non sono né acustico, né elettrico, né tradizionale, né moderno: sono sempre alla frontiera delle cose, sono questi i luoghi che mi interessano, luoghi dai confini indefiniti, dove nulla è stabilito in modo esatto, dove nulla ha una definizione esclusiva. Il mio processo creativo prende corpo proprio dove non ci sono format.



FC. Tra gli strumenti c’è anche la tua voce molto particolare. Come l’hai scoperta e coltivata e come la utilizzi insieme agli altri strumenti?



AES. E’ vero, la voce è a tutti gli effetti uno strumento. Nell’ultimo disco ho sfruttato tutto lo spettro delle frequenze della mia voce, andando dai registri più gravi a quelli più acuti e questo conferisce un aspetto decisamente androgino, mentre nei dischi precedenti avevo giocato maggiormente con il registro alto. La mia voce è una voce di contralto o di tenore leggero: quando ero al conservatorio e mi chiedevano di cantare sui toni bassi, credevano forzassi, ma non è mai stato così. Quando mi sono trasferito in Francia, ho scoperto tutto il potenziale della mia voce e ho cominciato a prendere lezioni da professori di canto lirico: ho cominciato a lavorare in profondità sulla voce, sul timbro, sulla rotondità delle note, sul respiro.



FC. La quantità delle influenze e la profondità degli incroci, ti rendono, in definitiva, un musicista mediterraneo nel senso più forte del termine. Ti si potrebbe definire, senz’altro, un esploratore musicale…



AES. Nella musica arabo-andalusa moderna il mio idolo è Cheick Redouane: è il solo interprete che mi fa venire la pelle d’oca, con le sue straordinarie interpretazioni, nutrite anche dal suo vivere in esilio. Voglio citare un altro dei miei musicisti preferiti, il grande Salim El Hillali, un artista che ha fatto della world-music negli anni cinquanta e sessanta – decisamente avanti rispetto ai suoi tempi – mescolando la musica arabo-andalusa con la bossa nova, il cha-cha-cha, il valzer… Io mi muovo sulla stessa rotta di questi artisti: guardo alla tradizione, ma anche a quanto propone il mondo di oggi, sono molto curioso e aperto alle nuove scene underground, scene ricche e lontane dai format e dal “pensiero unico”. Pertanto, rispetto molto il lavoro dei conservatori, indispensabile per la memoria: dico sempre che per costruire un futuro, bisogna vivere il presente e conoscere e il proprio passato. Ma bisogna prestare attenzione al conservatorismo: è come l’acqua che ristagna e non scorre, finisce per marcire. In conclusione, mi considero innovatore all’interno della musica mediterranea, la vera culla delle civiltà, e mi sento fiero di appartenere alla cultura arabo-andalusa.



FC. Il métissage caleidoscopico di Med’Set Orkestra. Puoi presentarci questa commissione che hai ricevuto dal Festival Sète Sois Sète Luas?



AES. Volevo costituire un gruppo composto da artisti tradizionali, esperti ciascuno nella propria musica, per dimostrare e dire finalmente che la cultura mediterranea è un’unica cultura e le sue frontiere sono solamente politiche. Ho scelto gli artisti e i brani delle diverse tradizioni in maniera federale. Ognuno ha cantato nelle lingue degli altri per disorientare gli ascoltatori, in modo che non si sappia più riconoscere a quale cultura appartenga ciascun brano. Il festival Sète Sois era un partner naturale per questo progetto, quasi simbolico: vive sulle coste del Mediterraneo e lavora esclusivamente con e intorno alla cultura del nostro mare. Ho scelto i musicisti più aperti e più talentuosi di ogni regione e che conoscessero bene il repertorio della loro tradizione. In seguito, ho ascoltato ore e ore di musica per proporre dei brani che avessero questo potenziale federativo, che fossero intriganti per quanto riguarda le melodie e dai testi interessanti.



FC. Questo progetto mette in evidenza come la musica in generale e, più in particolare, le differenti tradizioni possano essere un linguaggio comune per le varie popolazioni della nostra regione. Credo che questo fosse uno degli scopi del progetto e, senza dubbio, uno dei risultati più importanti.



AES. Sono totalmente d’accordo: era mia intenzione dimostrare attraverso questo progetto sia la ricchezza della cultura mediterranea sia, soprattutto, la sua grande unità.



FC. Un altro lavoro che ti vede protagonista sono Les Noubas d’Ici, un lavoro che è residente a Parigi. Come è stato concepito e organizzato?



AES. Nel mio lavoro musicale, ho creato dei legami e dei ponti tra differenti culture musicali: avevo voglia di andare più lontano in questo percorso e di dar vita a incontri tra diverse espressioni artistiche, come la fotografia e la video-art. Ho incontrato Cécile Cée, fotografa e video-maker, che ha illustrato i miei lavori. Ero molto curioso di vedere il risultato e sono molto contento dell’universo sensuale e caloroso che ha realizzato Cécile. Volevo che si ascoltasse la mia musica anche con gli occhi e non solamente con le orecchie, volevo creare un percorso che portasse l’ascoltatore ad utilizzare tutti sensi. Ma Les Noubas d’ici non si ferma qui: il primo giovedì di ogni mese, invito un ospite della Med’Set Orkestra sul palco insieme a me. In parallelo, ho realizzato un laboratorio di canto arabo-andaluso per i ragazzi di un quartiere “difficile” di Parigi: da una parte, per portare loro attraverso la musica i valori universali del rispetto, della tolleranza e dello scambio tipici della cultura andalusa; dall’altra, per renderli attori di questo progetto e accrescere la loro confidenza nei propri mezzi, facendoli diventare protagonisti del mio spettacolo di giugno 2009, in occasione dell’ultima Nouba.



FC. C’è una frase sul tuo sito, a proposito di Un Chouia d’amour, che mi ha colpito molto: “Akim riattiva a modo suo la filosofia dei Libertini del secolo dei Lumi e conduce così una battaglia sottile ma efficace contro l’oscurantismo di oggi…”



AES. Nell’ultimo progetto, Un Chouia d’amour, si ritrovano tutti i temi della mia carriera: il dolore dell’esilio, il rifiuto dell’integralismo e delle devastazioni provocate da questo all’interno della società algerina, la corruzione del potere, che affama il popolo. Ho preso coscienza della differenza tra la terra che mi ha accolto e adottato con la mia terra di origine, in particolare ad Orano dove sono sempre le mie radici. Quando si dice che sono un libertino si parla del mio lato ribelle, quello che non accetta che si faccia un uso politico della religione per avere potere, quello che rifiuta una politica dall’ideologia unica, la mia ispirazione a una società moderna, giusta ed equa. Il mio lato intellettuale contribuisce a questa immagine: la mia lotta resta sottile, il mio universo è fatto di immagini, di metafore, come nella tradizione arabo-andalusa.



FC. Quali sono oggi, i tuoi rapporti con i musicisti algerini? qual è il tuo punto di vista sulla scena musicale algerina?



AES. Tutto quello che arriva dall’occidente è il benvenuto, anche le cose più mediocri, perché l’occidente ci fa sempre sognare. Per cui, quello che succede è che si tendono a dimenticare le musiche tradizionali e, quando vengono utilizzate, vengono suonate con delle batterie elettroniche, con dei suoni orribili, in modo banale e limitativo. Quello che la scena musicale algerina offre in primo piano, spesso mi delude, dal momento che conosco la qualità del vivaio di giovani talenti e l’incredibile ricchezza stilistica presente in Algeria. Resto in contatto con i miei compatrioti che incontro nei festival, ma per il momento non ci sono collaborazioni all’orizzonte…