Cala Gonone Jazz 2009

Foto: Agostino Mela






Pasquale Mascia è uno dei membri dell’Associazione Culturale L’Intermezzo, che organizza il Festival Cala Gonone Jazz. Scopriamo attraverso le sue parole, la storia e gli obiettivi del festival.



Jazz Convention: Vuoi raccontare le origini di questo festival, giunto alla ventiduesima edizione?


Paquale Mascia: Il festival di Cala Gonone è una sorta di concretizzazione di alcuni sogni giovanili del gruppo di amici che ha formato l’associazione L’Intermezzo di Nuoro. Ci siamo innamorati del jazz molto giovani. Ma, vivendo in Sardegna in quel periodo ovviamente eravamo tagliati fuori dal circuito dei concerti, non c’erano ancora i festival, non era ancora iniziato il periodo dell’effimero, degli investimenti culturali nella musica al di fuori della lirica. Il primo concerto di rilievo che ho visto a Cagliari, nell’ottobre del 1979, è stato un concerto dell’Art Ensemble of Chicago. Da qui è cominciato tutto, anche lo sviluppo del jazz nell’isola, con la costituzione della Cooperativa Jazz in Sardegna, e il festival Jazz in Sardegna, l’odierna Jazz Expo di Cagliari. Così i nostri eroi, di cui avevamo solo pochi dischi, sono diventati i nostri compagni di strada. Dopo alcuni anni abbiamo avuto la fortuna di organizzare noi dei concerti di Lester Bowie con la Brass Fantasy e dell’Art Ensemble.


JC: Scorrendo i programmi delle edizioni del festival si notano molti nomi davvero interessanti. Ricorderesti qualcosa di alcuni di loro, ad esempio di Lester Bowie?


PM: La cosa più bella che mi ricordo è stata una serata passata su questa veranda [dell’Hotel Miramare, n.d.r.], sino a tarda notte, a parlare dei neri e dell’America. Mi raccontava come fosse difficilissimo per loro, dopo la prima fiammata di interesse per l’AACM, avere abbastanza lavoro negli Stati Uniti, tant’è che erano arrivati in Europa, si erano stabiliti nel 1969 a Parigi, e a Roma erano spesso senza lavoro. Lester era veramente un personaggio interessante, particolare. Tra l’altro uno dei suoi figli, che ha avuto con Fontella Bass, si è sposato a Cagliari e vive a Quartu. Abbiamo fatto anche alcuni concerti proprio con Fontella. E poi c’era il suo grande dinamismo, la sua curiosità … Con la Brass Fantasy abbiamo organizzato un concerto a Nuoro, era un organico veramente valido.


JC: Tenete anche una stagione invernale?


PM: Sì. La nostra è un’associazione culturale che è stata istituita prima del festival. Il festival ha 22 anni, l’associazione esiste da 25. Cala Gonone dura solo quattro giorni, per evitare la concomitanza con altri festival sardi, ma noi organizziamo dei concerti anche in città. Facciamo un festival invernale che si intitola Anima Nera Black Soul, dove ci immaginiamo un altro modo per pagare il credito alla cultura nero-americana oltre il jazz, con altri tipi di musica come soul e reggae, a cui agganciamo un circuito gospel. Lo scorso inverno abbiamo fatto dodici concerti di Anima nera, e un piccolo festival di donne jazziste, mai arrivate prima in Sardegna e pochissimo conosciute in Italia, come Dena DeRose, Eri Yamamoto, che è la pianista di William Parker, Lynne Arriale. Una manifestazione che è stata molto apprezzata, presso il teatro comunale Eliseo, uno spazio da settecento posti, con attrezzature perfette di cui abbiamo la gestione. Poi abbiamo anche altre attività legate alla musica commerciale, con una sezione che si occupa di questo. Quest’anno abbiamo fatto un tributo a De Andrè con Enzo Jannacci, Capossela, l’anno scorso Battiato; nella nostra storia abbiamo fatto tantissimi spettacoli non jazzistici: De Gregori, Baglioni, Guccini, molti altri italiani, e Youssou N’Dour, Miriam Makeba, Ray Charles, insomma un’esperienza molto ampia.


JC: E’ un po’ ciò che succede anche a Cagliari, mi sembra.


PM: Sì, ma noi cerchiamo di avere la nostra originalità, perché in Sardegna, essendoci un pubblico ristretto, non riusciremmo ad avere due pienoni o l’attenzione della stampa la stessa sera, per cui, come facciamo per il festival, esigiamo sempre l’esclusiva assoluta.


JC: Ritorniamo a Cala Gonone. Abbiamo parlato di Lester Bowie nel 1991, ma nel 1993 Lester ritorna con l’Art Ensemble of Chicago.


PM: Certo. Quello del ’93 è stato un concerto straordinario perché fu l’ultimo concerto dell’AEOC con Malachi Favors, che poi si ammalò ed era ormai troppo anziano e non aveva più voglia di continuare a viaggiare. Concerto indimenticabile. In seguito abbiamo continuato a lavorare con l’Art Ensemble, abbiamo fatto anche un’esperienza bellissima a Nuoro, dove sono rimasti quattro giorni, abbiamo lavorato la mattina con le scuole, insieme spiegavamo il senso della musica nera.


JC: Un’altra artista esibitasi qui è la compianta Betty Carter, una delle più grandi cantanti jazz di tutti i tempi.


PM: Betty Carter ha fatto un concerto straordinario, e abbiamo avuto la fortuna di conoscere una cantante eccezionale, e una persona simpaticissima. Aveva una voce stupefacente, e un modo di cantare particolarissimo, imbattibile, fuori dagli schemi. Il teatro era stracolmo e la gente veramente entusiasta.


JC: La Carter si circondava di splendidi musicisti.


PM: Sì, aveva con lei, appena diciannovenne, il pianista Jacky Terrasson, che era già bravissimo. Lei faceva da chioccia, tant’è che durante il sound check gli faceva ripetere i passaggi, sottolineava i punti in cui voleva l’enfasi, e i musicisti l’adoravano. Era una donna simpaticissima.


JC: Ci sono altri musicisti che vuoi ricordare?


PM: Da noi ne sono passati tanti, e molti ormai non ci sono più. Voglio ricordare Steve Lacy, abbiamo fatto due concerti con lui, ed era una persona di uno spessore umano incredibile. Mi ha colpito moltissimo per la sua gentilezza, l’eleganza, la disponibilità, oltre che per la musica.


JC: Una delle particolarità del jazz in Sardegna è la tendenza a fare incontrare la notevole cultura musicale locale con il jazz. Leggo questi tre nomi: Galliano, Rava, Ledda. Sentirli insieme credo sia stata un’esperienza interessante.


PM: Abbiamo sempre avuto la curiosità di verificare non tanto se esistesse una via sarda al jazz, che è un luogo comune da sfatare perché ormai il jazz è un lessico universale, ma se fosse possibile questo incontro. Il jazz è una musica popolare, che poi è diventata colta. In Sardegna abbiamo un grande patrimonio musicale, secondo me il tratto più interessante della cultura sarda sono la musica e la poesia. Siamo un popolo di musicisti e di poeti. Poeti estemporanei, inventori del primo strumento melodico del mondo occidentale, le launeddas, di modi di cantare particolari, di strumenti particolari. L’idea era di verificare se il linguaggio universale del jazz potesse unirsi alla musica sarda. Non abbiamo certo inventato noi questo approccio, ci sono stati dei tentativi molto importanti, ricordo per esempio il soggiorno di Ornette Coleman a Bitti dove per ben quindici giorni ha vissuto con i tenores, tentando di trovare una strada. Debbo dire sinceramente che alla fine, secondo me, questo percorso della fusione è impossibile. E’ molto più interessante e fecondo un percorso di avvicinamento. Il jazzista ha sensazioni, usa colori, usa tavolozze all’interno di un impianto formale strutturato. I tenores non hanno un impianto formale astratto, cantano così, non puoi costringerli a fare altro. Quando cominci a modificarli iniziano a non seguire i tempi, che spesso sono diversi, non riescono più ad avere l’intonazione… è un canto molto impegnativo per l’apparato delle corde vocali, molto spesso gli esperimenti sono affascinanti, però dal punto di vista musicale secondo me non hanno più senso. L’ultimo lavoro che abbiamo fatto è stato quello di avvicinare in maniera spontanea la musicalità cubana di Omar Sosa, con il quale abbiamo registrato un disco due anni fa intitolato Isolanos. E’ un uomo molto passionale, siamo diventati amici, abbiamo lavorato parecchio, siamo andati a registrare in studio a Barcellona, a Cagliari dal vivo, e abbiamo creato un disco con delle composizioni di Battista Giordano che è un nostro socio musicista contemporaneo e con l’uso dei tenores e di altri tipi di strumenti. Però con la logica di non cercare fusioni impossibili o semplici accostamenti, ma di rispettare l’espressività dei musicisti. Il risultato è stato sorprendente perché semplice, molto spontaneo.


JC: Vorrei ti soffermassi su altri grandi nomi che si sono esibiti qui: intanto Wayne Shorter, che ha suonato più volte.


PM: Con Shorter abbiamo fatto due concerti, uno in duo con Herbie Hancock (One+One) e l’altro in quartetto, erano gli anni del cd Alegria, dopo Footprints Live. Era un quartetto stratosferico, con Brian Blade e Patitucci. Indubbiamente Shorter è uno dei più grandi creatori di musica di questi cinquant’anni. Conoscendolo abbastanza a fondo musicalmente sono rimasto sorpreso di lui come persona. Abbiamo avuto anche qualche discussione dovuta a delle incomprensioni di carattere logistico.


JC: E poi Brad Mehldau, esibitosi qui l’anno scorso sotto una magica luna piena…


PM: La nostra idea era di riflettere sul senso del trio jazzistico, come Bill Evans l’aveva concepito, e volevamo confrontare sullo stesso palco le formazioni più interessanti del momento intorno a questo tema centrale nel jazz moderno. L’anno precedente abbiamo avuto The Bad Plus, altro trio che ha molto da dire, ed eravamo pronti ad accogliere l’Esbjörn Svensson Trio, avevamo un contratto per il mese di ottobre del 2008 per un concerto a Nuoro, ma purtroppo il pianista è morto prima. Anche quella è una musica laterale al jazz, però emotivamente molto coinvolgente, una ricerca molto interessante. Brad Mehldau è un musicista che personalmente adoro, ho tutti i suoi dischi, lo conosco molto bene. Non è stato facile averlo perché non faceva tante date in Italia nel periodo giusto per noi, dunque non ci siamo riusciti nell’anno in cui ha suonato The Bad Plus, ma l’anno dopo. E’ stato un concerto indimenticabile. Mehldau è una persona dolcissima, nonostante passi per spigoloso, ha solo un carattere un po’ chiuso, ha avuto delle esperienze di vita che lo hanno segnato. La musica è stata straordinaria, bellissima, abbiamo la fortuna di tenere i concerti in un parco con dietro il mare, il cielo, l’odore dei pini, e a un certo punto è sorta la luna mentre suonava, era strapieno di gente, e lui è stato benissimo, tanto è vero che ha fatto tre bis, credo il suo record assoluto. Poi un altro trio straordinario che abbiamo avuto nel Festival è stato quello di Abdullah Ibrahim, molto diverso da quello di Mehldau. Anche lui passa per essere spigoloso, e un po’ forse lo è. Avevano perso il bagaglio durante i viaggi in aereo, e il batterista si lamentava di non avere le sue spazzole. Noi gli abbiamo subito procurato un set di spazzole, ma loro sembravano comunque un po’ insoddisfatti. Confrontando il sound check fatto senza i loro strumenti e poi il concerto, invece, suonato con i loro, grazie alla tardiva consegna dei bagagli, sembra assurdo ma è vero, i piatti suonavano diversamente, molte sfumature cambiavano. Il teatro era tutto teso e ammutolito a seguire la musica straordinaria di Ibrahim, grande musicista forse un po’ sottovalutato. E abbiamo anche abbiamo avuto Chick Corea. Ricordo che il pianoforte aveva qualche problema tecnico per l’alta temperatura e l’accordatore è riuscito a sistemarlo solo in parte, probabilmente molti jazzisti italiani non l’avrebbero suonato. Per Chick invece è andato benissimo, ha suonato ottimamente e si è dimostrato simpaticissimo.


JC: Quali saranno le tendenze che determineranno le scelte artistiche per le prossime edizioni del Festival?


PM: Abbiamo abbandonato la sperimentazione sardo-jazzistica, perché riteniamo che abbia esaurito la sua funzione. Siamo obbligati dal contesto in cui operiamo, ma ne siamo ben lieti, a effettuare un solo concerto serale, perché siamo in un posto di mare bellissimo, dove la gente va in spiaggia, fa una cena leggera, alle 21.30 viene al concerto e poi va a bere qualcosa e a commentare il concerto. Dunque non possiamo fare master class, laboratori, iniziative mattutine o pomeridiane. Facciamo una sorta di jazz festival vetrina. Da qualche anno stiamo cercando di portare anche musicisti poco conosciuti, come il trio The Bad Plus di cui parlavo prima, un gruppo formidabile che si ascolta rarissimamente in Italia, e di cui è difficile anche reperire i dischi nel circuito normale. Lo stesso vale per Edmar Castaneda. La cosa che più ci riempie d’orgoglio è che comunque c’è un nutrito gruppo di persone che si fida della proposta e viene ai concerti. E’ giusto far vedere che ci sono delle proposte singolari, interessanti, oltre ai grandi nomi. Wayne Shorter è ovviamente ben gradito, ma è interessante anche vedere cosa succede sulla scena newyorchese attraverso la musica di Ben Allison. Questo è dunque lo spazio che vorremmo occupare. Anche con scelte forse controcorrente in Italia come la presenza della Sun Ra Arkestra, troppo facilmente messa in un angolo, che quest’estate ha tenuto qui il suo unico concerto in Italia. L’anno scorso, la stessa cosa è avvenuta con il sestetto di David Murray, anche lui ormai etichettato come fenomeno passato, che ha dato un concerto straordinario.