Jack DeJohnette & The Ripple Effect

Foto: Roberta Guzzetti






Jack DeJohnette & The Ripple Effect

Roma, Auditorium Parco della Musica. 27.10.2009



Jack DeJohnette:batteria, voce

Marlui Miranda:voce, strumenti indiani

John Surman:fiati

Jerome Harris:chitarra, basso elettrico

Ben Surman:samples, elettronica



In qualsiasi contesto li si metta, ogni qualvolta che Jack DeJohnette e John Surman dividono lo stesso palco, il successo è garantito: in duo, con la London Brass o in quintetto, come avvenuto lo scorso 27 ottobre all’Auditorium di Roma, il risultato sembra essere sempre il medesimo. Il sodalizio tra i due risale ai primi anni ottanta quando quell’insolito incontro fu suggellato dallo straordinario album “The Amazing Adventures Of Simon Simon”. La tappa romana fa invece parte del progetto più ampio The Ripple Effect che vede una formazione allargata ed eterogenea che garantisce una varietà ancora maggiore. L’ensemble mette insieme musicisti di diversa estrazione estremamente versatili, tra l’altro tutti eccellenti polistrumentisti: il bassista e chitarrista Jerome Harris, la cantante brasiliana Marlui Miranda e Ben Surman, figlio di John, esperto di samples ed elettronica. La parte del padrone di casa tocca a DeJohnette che introduce, presenta e dirige dentro la sua gabbia di plexiglass isolante, mentre nessuno pare avere il ruolo del leader. Ognuno sa perfettamente come muoversi nei vari contesti proposti dando il proprio contributo in un continuo susseguirsi di atmosfere e sapori in cui si possono cogliere influenze africane, indiane, black e giamaicane. La prima parte del concerto è caratterizzata dalla personale voce della Miranda che al cantato in lingua portoghese alterna vocalizzi seguiti splendidamente dai sassofoni di John Surman e dal figlio Ben venendo quasi a formare una imprevedibile quanto affascinante sezione fiati. DeJohnette è qui libero di sfogare il suo talento rispetto al ruolo più composto e posato del trio di Jarrett, in un puro esercizio di stile e pulizia che riempie magistralmente il tutto senza mai eccedere, mentre Harris alterna con disinvoltura chitarra elettrica al suono corposo di un basso Steinberger. I brani non faticano affatto a crescere di intensità variando molto spesso scenari e colori, con gli stessi protagonisti a scambiarsi divertiti di continuo ruoli mettendosi l’uno al servizio dell’altro. Si passa così dalle tipiche atmosfere di stampo Surmaniano a momenti ambient, dub o rap con estrema coerenza e linearità in una varietà che riesce a coinvolgere l’attento pubblico romano. John Surman sale ben presto in cattedra muovendosi in un terreno a lui caro e in cui può liberamente esprimersi soprattutto al sax soprano che alterna insolitamente al tenore, rinunciando al ben più amato baritono. Ottimo anche l’apporto del figlio Ben che riesce a dosare con eleganza l’uso dell’elettronica senza essere troppo invadente riempiendo gli spazi con estremo gusto, mentre la voce della Miranda sembra essere perfettamente modellata per completarsi con i fraseggi dei sassofoni di Surman. Nella seconda parte il livello si alza ulteriormente in un crescendo di emozioni: l’elettronica si fa più presente e Surman recupera un vecchio gioiello dal suo repertorio, una splendida Gone To The Dogs, qui in una inconsueta versione cantata, introdotta dai piatti di DeJohnette con lo stesso Surman che regala un memorabile assolo al soprano. Nel finale c’è anche spazio per un brano ritmato, Worldwide Funk, in cui Ben Surman ha l’opportunità di poter rappare su una ritmica di lusso prima di una ovazione finale più che meritata conclusa dal bis in un tradizionale inno di pace cantato coralmente da tutti e cinque i protagonisti sui soli tamburi di DeJohnette.