Intervista a Massimo Barbiero

Foto: Luca D’Agostino – Phocus Agency









Intervista a Massimo Barbiero.


Negli ultimi tempi, Massimo Barbiero è stato protagonista di una notevole serie di pubblicazioni. Ha dato alle stampe dischi diversi per intenzioni e organico: Nausicaa in solo, Medusa con Odwalla, Atlantide con Enten Eller e, insieme a Maurizio Brunod, ha incontrato Daniele Di Bonaventura e Enzo Favata in Jeux d’enfant e Alexander Balanescu e Claudio Cojaniz in Marmaduke. Inoltre sono stati pubblicati due libri – Massimo Barbiero Odwalla the world percussion and dance libro fotografico a firma di Luca D’Agostino che racconta i concerti più recenti di Odwalla e Massimo Barbiero Enten Eller e Odwalla, vent’anni tra Jazz e ricerca a firma di Guido Michelone – e due DVD – Il settimo sigillo di Enten Eller e Live at Musica sulle Bocche di Odwalla. Abbiamo tracciato con il percussionista un percorso attraverso le formazioni e le opere e le motivazioni espressive che sono alla base dei vari lavori.



Jazz Convention: Più che entrare nello specifico dei dischi, affronterei il corpus in maniera unitaria, sottolineando come alcune questioni generali della tua musica vadano a dar vita alle singole esperienze. Il primo punto sul quale mi piacerebbe avere la tua opinione è la necessità di superare confini e barriere.


Massimo Barbiero: Non è una sfida o il voler essere originali a tutti i costi… credo sia un bisogno naturale o, forse, è più semplicemente il modo più semplice che conosco per giungere ad un obiettivo, quello del confronto e della comprensione delle diversità: esserne affascinato e provare a metterle insieme proprio dove si penserebbe che sia una forzatura. E’ stato così con Tim Berne, Alexander Balanescu, Schiaffini oppure con Cobham, Cinelù e musicisti africani o indiani in Odwalla. Non ho mai piegato il progetto al loro modo di suonare ma ho creduto che loro avessero più da dare all’interno di una composizione estranea alla loro estetica piuttosto che fargli un brano su misura. Così i risultati, anche umani, sono sempre nuovi, aprono prospettive diverse, ti aiutano anche a capire come suonare, scrivere in modo diverso.



JC: In particolare come si riflette questo fatto nella scrittura e nell’arrangiamento di brani della varie formazioni.


MB: Spesso la scrittura si evolve attraverso quel processo e l’arrangiamento è una conseguenza di equilibri umani prima che estetici, la forma scaturisce da se, in maniera naturale. Certo ci sono idee precise su un brano, strutture, cicli, poliritmi, polimetri, temi, ma sono il frutto di ascolti, errori su cui riflettere: un tema ha delle motivazioni emotive prima che armoniche. L’uso della kora, delle tabla non è folk o new age, non sono “sapori etnici”, non quando dovranno suonare su un brano che tutto ciò non glielo permetterà. Tim Berne suono con noi su diverse ballad – cosa che non mi risulti faccia spesso – eppure funzionava e a lui piaceva: e non suonò in modo diverso da come suona nei suoi progetti più “duri”.



JC: Sono tanti i “duopoli” che perdono le loro distinzioni nette nella tua musica: libertà e forma; Europa e africa, ritmo e melodia, ricerca e consolidamento, fisicità e ragione… per citarne solo alcuni…


MB: E’ probabile che il contrasto mi affascini (dallo scontro nasce la creatività – Eraclito), ma non è pensato a tavolino. Credo sia la chiave per comprendere meglio sé stessi, dipanare il filo, togliere piuttosto che mettere. Certo che per togliere qualcosa dovrai pur mettere prima…



JC: Più in generale, con l’intervento di Luca D’Agostino, Cristina Ruberto e Cristiana Celadon cadono anche i confini tra forme d’arte.


MB: Non so se “cadono”, di certo l’intento è avere più fonti d’ispirazione, punti da cui allontanarsi, direzioni verso cui andare. Ma già Wagner né “l’opera d’arte dell’avvenire” affrontava questo tema. Francamente credo che il vero limite del jazz di questi ultimi anni è l’incapacità di “ascoltarsi”, di sentire la fisiologica necessità di “rinnovarsi”. E non si tratta di questioni meramente estetiche ma di un atteggiamento, di una propensione a cercare dentro se stessi: certo, può essere fatto anche attraverso gli standard, ma quando si fanno le “cover” degli “standard” qualcosa mi dice che si è perso di vista il senso del principio dell’improvvisazione. Vedo più rapporti tra Armstrong e Jarrett che rispetto a Marsalis. E anche tutto questo blaterare sulla world music: ma allora l’Art Ensemble of Chicago, Zawinul, Duke Ellington, Mingus, l’ultimo Coltrane, Don Cherry cosa facevano? Solo che non la chiamavano world… Ma chi dice queste cose sulle contaminazioni che jazz ha ascoltato? Cosa ha percepito dello spirito dell’improvvisazione, sia etnica, europea o boppistica. Per me la danza e la fotografia sono la percezione dell’istante e quindi quanto di più assoluto per rapportarsi all’improvvisazione: un giro armonico non ha lo più lo stesso potere di creatività che aveva in origine. Oggi il proliferare di scuole jazz tende a produrre geometri e ragionieri della musica e molto spesso non c’è “pudore” e c’è invece un senso di “volgarità” in questi CD tutti uguali: una sorta di appiattimento estetico tutto perfetto. Come un film pornografico: le luci, le riprese, i tempi… ma di cose che si dovrebbero solo immaginare… non vedere…



JC: La dimensione narrativa del tuo lavoro ha trovato sicuramente sfogo nei libri e nel DVD ma è un elemento presente nel tessuto intimo del discorso proposto dalle varie formazioni. Come si esplicita e quali sono i tuoi punti di partenza, prima, e gli obiettivi finali?


MB: I libri sono opera uno di Guido Michelone e Luca d’Agostino, l’altro con anche Alberto Bazzurro e Guido Festinese, è la loro maniera di percepire il mio lavoro, sia dalle mie parole che dalle immagini di Luca. In realtà, la cosa m’imbarazza un po’, da una parte, e, dall’altra mi fa ovviamente piacere: ma li ho visti finiti e non li ho scritti io. I DVD – sia i due di Odwalla che “Il Settimo Sigillo” di Enten Eller – erano, e sono, la necessità di mostrare un progetto la cui estensione, sia del movimento che delle immagini, non poteva esser percepita dai CD, ma che dopo la visione aiuta anche ad ascoltarli con orecchio diverso. Forse, se ci fossero più concerti non avremmo fatto dei DVD, ma non è detto… del “Live at Musica sulle Bocche” sono molto contento.



JC: Le diverse formazioni come reagiscono al percorso che proponi loro?


MB: Credo in maniera “naturale”, Maurizio, Maier, Mandarini, Matteo o Kyatè, D’Agostino o Cristina, sono persone: io do delle linee guida delle indicazioni su ciò che mi sembrerebbe “interessante” fare, ma ho bisogno del loro coinvolgimento, altrimenti non riuscirei a portare avanti simili progetti. Sembra retorico, ma è la stima reciproca che permette la durata e la continuità di simili gruppi… se vuoi l’amicizia. Non la darei per scontata, nel mondo del jazz sono tantissime le situazioni “lavorative” dove ciò di cui ti sto parlando sono solo astrusità: ho visto musicisti suonare a festival e club non mangiare nemmeno allo stesso tavolo…



JC: I suoni. Oltre alle percussioni e al sodalizio con Maurizio Brunod di cui ti chiedo più avanti, come entrano a far pare del tuo bagaglio espressivo le voci dei vari strumenti? la scelta parte dal suono o dal musicista? e come i timbri dei vari strumenti condizionano l’evoluzione dei progetti?


MB: Forse un po’ si, ma non quanto si potrebbe pensare leggendo la formazione o gli strumenti sulla copertina del CD: si tende a pensare già un risultato, mentre poi sia i nostri concerti che i CD depistano e disorientano anche molti dei critici più preparati – come mi hanno detto loro stessi. Non ho mai usato la marimba cercando qualcosa che non avrei potuto trovare anche con la batteria. Spesso si tratta di una conseguenza del rapporto con i musicisti con cui suonerò, oppure di momenti della vita in cui senti più vicino il metallo del vibrafono più che il legno della marimba. Non vorrei sembrare troppo metafisico, ma bisogna “sentirlo” il proprio strumento. Anni fa, in un’intervista a Percussioni, mi è scappata questa definizione che mi sembra una bella intuizione: “Il suono non è l’oggetto strano; il suono ce l’hai dentro, da qualche parte vibra. Il suono è la tua maniera di rapportarti con la materia”… autocitarsi, però, è una dimostrazione di ego sfrenato…



JC: Maurizio Brunod condivide con te il tragitto musicale da diverso tempo. Qual è il gioco di sponda e di mutua influenza che si crea in un percorso comune così lungo?


MB: Non saprei dirti, me lo chiedono spesso, e ce lo chiedono spesso, ma non c’è molto da dire se non che ci conosciamo da circa trent’anni, che ci vediamo quasi ogni giorno, che abbiamo ascoltato tantissima musica insieme, dai Genesis a Bach da Coleman a Jarrett… Non parliamo quasi mai di musica o comunque meno di quel che si potrebbe pensare. E’ tutto più semplice: “suoniamo insieme”.



JC: La ricerca sui suoni delle percussioni prima per quanto riguarda il tuo mondo sonoro e, poi, per quanto riguarda Odwalla.


MB: Da sempre, i miei modelli sono stati batteristi con un suono naturale, primitivo, unico come Cyrille, Motian, Roach, De Johnette, Graves, Oxley. Quindi il problema non è mai stato “lo strumento”, ma come suonarlo, più la pronuncia che il fraseggio. Per Odwalla è diverso c’è l’intenzione, la presunzione di scrivere, di definire tessiture con materiali di origine diversa. Il gamelan indonesiano, suonato sul vibrafono, con figure dei Kodò giapponesi, suonate sulle pelli, al servizio di una ballad ma suonata con una kora. Non voglio mischiare le carte o dare dei sapori etnici, ma credo sia la stessa cosa che faceva il jazz delle origini: mischiare linguaggi, pronunce, culture. Anche perché non mischio kora e tabla, ma Lao e Nihar, e se non funzionano loro come persone hai una bella voglia di dargli un senso a posteriori.



JC: La percussione, in modo più organico rispetto ad altri strumenti, permette l’unione di gesto e intenzioni, di timbro e intensità. Quale è stato il percorso filosofico, passami il termine, con cui ti sei avvicinato a “pelli, legni e metalli” e hai sviluppato le motivazioni della tua ricerca?


MB: Mi è capitato spesso di far riferimento ad una certa “arcaicità” o a un suono quanto più possibile “primordiale”: forse per le percussioni questo è più immediato da percepire, anche se essendo jazz, almeno nelle intenzioni, devi anche trovare il tuo “suono”, cosa non così semplice soprattutto su marimba e vibrafono. Intendo dire che molto spesso lo stile si distingue dal tipo di fraseggio, mentre io continuo a pensare che il suono è tutto: da Coltrane a B.B. King, da Hendrix a Davis. Rispondo alla tua domanda dicendo che le “motivazioni” ad una ricerca interiore sono appunto la ricerca del proprio suono che è dentro di noi e non nello strumento che userai, quello andrà piegato alle necessità della musica.



JC: Spesso hai parlato di influenze extra-musicali. Come si sviluppa in te un’idea musicale da una fonte altra? E quanto contano gli aspetti visivi, narrativi, immaginifici nella tua musica?



MB: Anche qui la questione può sembrare molto intellettuale: i miti greci, la filosofia, Bergman, il cinema, la fotografia, la danza per me sono importanti, certo, ma alla fine si tratta di raccontare una storia, la tua e di quell’attimo. Le varie influenze, contaminazioni sono naturali, non vedo confini, steccati né tra le arti e, figuriamoci, tra generi musicali. Anni fa, Daniel Humair mi confermò questo mio pensiero, dicendo che lui è influenzato dal posto in cui si trova, da quello che mangia, dalla gente che conosce… vuoi una banalità dalla “vita”. Certo non rinuncerei a Mozart a Evans all’AAOC e a tutti gli altri, ma perché rinunciare a farsi influenzare dai colori di Mondrian per concepire “spazi ritmici” oppure agli archi del rinascimento per immaginare strutture ritmiche all’interno di brani dai colori africani. Non sono forzature, bisogna aprirsi cercare altre strade.



JC: Negli ultimi tre anni, dal 2007, tra libri, dischi, DVD e progetti è come se avessi voluto fissare le tue idee e i tuoi progetti. Cosa ti ha portato ha realizzare una serie di pubblicazioni così serrata?


MB: E’ stato un periodo complesso, i progetti pubblicati nel 2009 – Nausicaa, Marmaduke e Medusa – sono nati quasi in modo naturale, soprattutto il solo. Avevo della musica da suonare, sentivo che anche in termini di energia e lucidità ognuno dei tre CD che ho prodotto aveva ragion d’essere ed erano diversissimi eppure, come dici tu, “coerenti”. Dal 2007 abbiamo suonato tanto con Odwalla ma anche con Enten Eller – Atlantide è un CD di cui sono molto orgoglioso, e forse, nonostante le recensioni, non lo si è percepito appieno: i DVD e i libri sono la concentrazione di molto di quel lavoro che ha innescato molto interesse su di noi.



JC: Ascoltando i lavori usciti negli ultimi tempi, ho notato una grande coerenza di contenuto declinata secondo atmosfere diverse.


MB: E’ una cosa stranissima, o forse no, ma tutti hanno percepito in questi tre CD, molto diversi tra loro, una sorta di melanconia e di “chiarezza d’intenti” simile. Il motivo c’è: io stavo, e sto passando, un periodo molto particolare e chi mi frequenta lo sente e né è sicuramente influenzato, ma pensare che passasse così anche attraverso i CD è cosa che non avrei mai creduto possibile. Ma tutte le recensioni, in modi diversi tra loro, tendono a notarlo. E a considerarlo un pregio di questi tre lavori. Forse la coerenza non è cosa che può essere determinata a tavolino, ma è frutto, se mi è permesso, di una maturità che non ha più la necessità del consenso.



JC: In pratica hai dato vita a un momento enciclopedico delle tue diverse manifestazioni artistiche. Qual è, a posteriori, il tuo giudizio sullo stato delle tue attività?


MB: Artisticamente buono e sembra pensarlo anche la critica, ma si suona troppo poco e quindi è un po’ frustante: è irritante sentire tante lodi sul tuo lavoro ma non avere un riscontro concertistico adeguato. Anche in questo caso, la questione non è musicale, ma politica e sociologica: viviamo un periodo di omologazione, di yesman, di situazioni stagnanti. La cultura dell’aperitivo, del deambulare in contesti privi di sostanza quasi a confondere leggerezza con inconsistenza.



JC: Hai anche avuto modo di curare la direzione artistica di festival e rassegne e in particolare dell’Open World Jazz Festival: come hai ragionato in questa direzione?


MB: I festival sono un argomento delicato, dalla scelta dei nomi, ai fondi per poterli organizzare, al territorio in cui operi (Ivrea, ad esempio, ha problemi seri dal punto di vista “culturale” per quel che riguarda il post Olivetti), poi ci sono i problemi etici, morali che hanno anche loro serie motivazioni. Per anni ci sono stati solo organizzatori storici – ad esempio Ramella, Pagnotta, Rubei, Caroni: competenti, spesso referenti di qualche partito, ma in grado di saper far funzionare bene un festival. Poi è arrivata la generazione dei musicisti che si è riappropriata, credo giustamente, della musica e delle manifestazioni: hanno gestito i fondi e sono stati accusati di inserirsi nei propri cartelloni (me stesso, Fresu, Bonati, Minafra, Favata e via dicendo). Credo comunque che se c’è un progetto, questo è un falso problema. Oggi stanno spuntando losche figure, individui che al servizio di qualche referente, non sempre partitico, si inventano oggi organizzatori di festival jazz, domani di festival di degustazioni di vini o di quello che serve in quel momento per attingere ad un finanziamento. Questo secondo me è il pericolo più serio che corre la musica oggi: il jazz saprà reinventarsi, Bach resisterà, ma mettere in mano a simili lestofanti responsabilità simili e denaro pubblico è forse una delle cose che più mi rattrista nel già buio futuro di questo paese.