Roma Jazz Festival 2009

Foto: Andrea Buccella






Roma Jazz Festival 2009

Roma, Auditorium Parco della Musica.



Si è svolta come di consueto nel mese di novembre all’Auditorium Parco della Musica la trentatreesima edizione del Roma Jazz Festival, dedicato quest’anno alle Jazz Labels. Il 2009 infatti è stato l’anno di particolari ricorrenze per quel che riguarda storiche etichette legate al mondo del jazz e così l’occasione per celebrarle è stata colta al volo per mettere su un cartellone di primissimo livello. L’apertura è stata affidata l’8 al Danish Trio del nostro Stefano Bollani per festeggiare i 40 anni dalla nascita della casa discografica tedesca ECM, etichetta che ha pubblicato l’ultimo acclamato lavoro Stone In The Water del pianista toscano, accompagnato, qui come nel disco, dai fenomenali danesi Bodilsen al contrabbasso e Lund alla batteria. Il giorno seguente è stata la volta della celebrazione dei 50 anni dalla pubblicazione da parte della Columbia dell’album Kind Of Blue di Miles Davis con un super gruppo denominato So What Band, formato attorno alla figura del batterista Jimmy Cobb, unico superstiste di quella storica incisione, e in cui hanno brillato tra gli altri i fiati di Wallace Roney e Javon Jackson.


Mercoledì 11 è andato in scena l’evento centrale e tra i più attesi di tutto il festival, ossia il ritorno a Roma del sassofonista Sonny Rollins che, come al solito, ha fatto registrare il tutto esaurito nella grande sala Sala Cecilia in un parterre affollato di nomi della cultura e dello spettacolo così come della stampa specializzata. Come sua abitudine, il musicista newyorkese, alla soglia dei sui ottant’anni, non si è risparmiato regalando emozioni e stupore a chi non è voluto mancare nonostante i prezzi alti. In testa al suo sestetto fisso che l’accompagna oramai da diversi anni, Rollins si prende da subito il centro della scena attraverso lunghi monologhi e assoli torrenziali relegando i suoi compagni ad un ruolo di semplici accompagnatori, in cui comunque si fa positivamente notare la ritmica formata dal contrabbasso di Bob Cranshaw e le possenti dinamiche della batteria di Kobie Watkins. La scaletta è pressocché consolidata e Rollins, in un’ora e mezza di concerto, ripercorre l’intera carriera: l’inizio è una lezione di stile hard bop fatto di classici e ballad cari al sassofonista tra cui una In A Sentimental Mood e My One And Only Love rese nel tempo un vero must del repertorio di Rollins. La seconda parte invece è tutta per quel che si può definire un marchio di fabbrica rollinsiano fatto di calypso: si inizia con una lunga e travolgente Nice Lady per passare ad una Tenor Madness appena accennata a far da intro per l’ormai classica conclusione affidata alla festa di Don’t Stop The Carnival a suggello di un trionfo ampiamente meritato, doveroso tributo alla generosità che da sempre accompagna uno show di Rollins.


Il giorno successivo a salire sul palco è una delle realtà più convincenti ed entusiasmanti, il pianista cubano Roberto Fonseca, arrivato a Roma per la presentazione del suo nuovo disco Akokan uscito quest’anno per l’etichetta tedesca Enja. A precedere la sua esibizione il nostro Livio Minafra che tuttavia ha pagato da un lato la giustificata emozione per la sua prima volta al festival romano e dall’altra il non felicissimo abbinamento con una star del latin jazz, lontano anni luce dallo stile comunque apprezzabile del giovane pianista pugliese. A capo di un quintetto formato da tutti musicisti de La Habana, Fonseca ha da subito deliziato con la sua musica delicata ed elegante, in un perfetto mix tra jazz moderno e sapori caraibici, supportato da una ritmica di primissima qualità con uno strepitoso Rodriguez alla batteria e da un altrettanto valido Javier Zalba, bravo a colorare soprattutto con flauti e clarinetto. Fonseca ha personalità e carisma accattivandosi fin da subito le simpatie del pubblico, dando vita ad un concerto di assoluto valore fatto di gusto e passione in un crescendo via via travolgente per quella che rimarrà la più bella conferma dell’intero festival.


Dopo i successi di pubblico del trio di Brad Mehldau del 14 e la prima italiana dell’artista canadese targata Verve Diana Krall del 15, a conclusione del festival è stata la volta della celebrazione della Black Saint, la storica casa discografica italiana che da sempre ha fatto dell’avanguardia un vero e proprio manifesto. A rappresentala uno dei personaggi cardine dell’intero catalogo dell’etichetta, David Murray con il suo Black Saint Quartet, anch’egli fresco di stampa con il suo Sacred Ground. Ricerca, sperimentazione e innovazione sono da sempre il credo del sassofonista americano che trova soprattutto dal vivo la sua massima realizzazione, non venendo meno alle aspettative anche in questa tappa conclusiva. Murray dà vita a uno show di grande impatto fatto di accordi sospesi e pedali che garantiscono la giusta tensione in cui può liberamente sfogare i suoi sui armonici, omaggiando Coltrane e Ayler su tutti, trovando anche spazio per una intensa e toccante Chelsea Bridge prima del gran finale affidato ad una strepitosa Flowers For Albert, a conclusione di una serata curata nei minimi dettagli grazie anche al contributo di un ottimo e fantasioso Gilchrist al piano e di un interplay continuo con una ritmica di spessore.


Lunga vita a un festival che va negli anni assumendo una immagine e un’importanza sempre maggiore e che ha offerto parecchi spunti di interesse in un bel mix tra vecchie glorie e giovani promesse, premiato finalmente anche dall’ottima presenza di pubblico che ha affollato i tanti concerti proposti di un cartellone sicuramente vincente.