Vincenzo Martorella – Il Blues

Foto: Copertina del libro






Vincenzo Martorella – Il Blues

Einaudi, 2009.


Il blues la musica del diavolo. E allora ci vogliono doti luciferine per illuminarne l’anima profonda. Ma…diavolo d’un Martorella! Lui c’è riuscito. Critico musicale, giornalista e storico della musica, Vincenzo Martorella ha scritto svariati libri spaziando da Art Blakey alla fusion; qui però il soggetto è di quelli che fanno tremare i polsi ai migliori: confrontarsi con l’immaginario blues, senza rinunciare ad affascinare il lettore evitando le trappole dell’aneddotica che ha già avuto maestri di cerimonie in quantità.


Un compito affrontato con un procedere semplice, come è semplice (ma non banale) il blues delle origini. Con un prologo, sul freddo rapporto tra il blues e le altre forme musicali afroamericane. Problema secondo l’autore sottovalutato:


… se è vero che nelle storie del jazz il blues viene sempre indicato come progenitore necessario, mentre in quelle del blues il jazz viene semplicemente ignorato.


Da incidere nel marmo.


Come se il jazz fosse quel figlio di umili natali che “ha studiato” ma che non rinnega le radici, mentre proprio la povera famiglia d’origine, in un misto di orgoglio e deferenza vorrebbe quasi celare il legame. Il Blues come decano tra le musiche afroamericane intreccia tali e tanti aspetti della cultura nera da non aver bisogno di puntellarsi con altro. Tra i temi trattati alcuni sono ineludibili, come il capitolo sulle sue origini africane o una disamina dei testi. Anche per questi passaggi obbligati Martorella cerca di suggerire chiavi di lettura personali.


Altro tema fondamentale toccato è il rapporto tra sacro e profano della musica nera: il blues e il gospel, i bluesmen e i predicatori-cantanti. Scrive Martorella:


Eppure la storia del blues è piena di percorsi di andata e, a volte, ritorno dal jukejoint al pulpito.


Ecco sinteticamente tracciato il rapporto tra la profonda religiosità della società nera e il blues. E qui si accendono i riflettori su un eroe oscuro, simbolo concreto di questa relazione: Blind Willie Johnson. Virtuoso della chitarra slide, nato nel 1902 e cieco a sette anni. Si esibiva nelle chiese texane. Blind Willie si considerava un’artista gospel, ma le sue canzoni religiose erano semplicemente grandi blues. La sua voce rauca, il suo bottleneck mancino influenzarono schiere di bluesman e non solo: i suoi brani sono stati ripresi da Bob Dylan, Eric Clapton, Rolling Stones e Led Zeppelin, con una (s)travolgente Nobody’s fault but mine.


Il suo classico Dark Was The Night (Cold Was The Ground) gira lo spazio nel Voyager One, tra le musiche che l’uomo vuol far conoscere agli alieni, ma la sua tomba, perduta, è stata ritrovata solo quest’estate da un infaticabile appassionato, e questa è l’altra storia, quella del disinteresse mostrato (fino a oggi) dall’America ufficiale per le radici afroamericane. Personalmente qualche pagina in più sul tema dello (scarso) recepimento l’avrei apprezzata…


Particolare che non offusca la completezza della mappa tracciata. Poco spazio – giustamente – viene concesso al blues più conosciuto: invece di Muddy Waters e B.B. King si parla molto di Delta del Mississippi, con figure meno note, a volte dirompenti: Son House, Skip James, Mississippi Fred McDowell…


Il libro attraversa le peculiarità del blues, alla ricerca di quei fattori di diversità che lo hanno reso un unicum centrale per la musica del Novecento. Spesso si leggono fatti poco noti: uno tra essi è l’importanza degli immigrati europei nella vicenda del Blues. Gli italiani ad esempio, come Fred A. Barrasso, primo manager a ideare un circuito itinerante di show nella Memphis di inizio secolo, spettacoli dove si esibirono molte blue singers e Antonio Maggio, autore della prima stampa di una partitura blues, I got the blues nel 1908.


La chitarra in metallo suonata con il bottleneck è con l’armonica il vero simbolo del blues. Anche in questo caso intervennero dei migranti d’ingenio. Le mitiche chitarre Dobro vennero inventate da un Cecoslovacco, John Dopyera (poi liutaio della altrettanto celebre National), mentre era opera di un artigiano tedesco la Martin.


Di origini tedesche era anche Heinemann, il fondatore della casa discografica OKeh, la prima a registrare in maniera estensiva così tanto blues (in questo stesso capitolo si racconta l’altra curiosa vicenda della prima etichetta con solo dipendenti neri, la Black Swan).


Sono storie fresche che nell’insieme rendono il ritratto del blues maggiormente vivo. In questa prospettiva sono innovative le pagine dedicate alla cantante Bessie Smith. La sua musica potrebbe suonare lontana oggi, ma non è così. Martorella parlando di Bessie cita Billie Holiday e poi Janis Joplin, tracciando una linea canora che congiunge il blues arcaico al jazz vocalism, per arrivare al miglior rock che i sixties abbiano prodotto:


Difficile immaginare due cantanti più distanti – stilisticamente, almeno – di Billie Holiday e Janis Joplin. Eppure, per tutt’e due Bessie Smith costituì un modello, una fonte di ispirazione. Janis Joplin addirittura disse: «Mi ha mostrato l’aria e come fare per riempirla».


Splendida Janis. Ma immediatamente l’autore torna all’importanza di Bessie:


Ecco perché Bessie parla di tutto nei suoi blues: un posto preponderante l’ebbe l’argomento amoroso (sarà così anche nel songbook di Billie Holiday), ma non esclusivo; raccontava se stessa e la condizione del suo popolo, i suoi problemi con l’alcol e lo sfruttamento, l’ingiustizia e la povertà, il sesso e la disperazione. Ebbe il coraggio di dare voce ai neri del nord e del sud. Diede loro la sua voce affinché potessero usarla come fosse la propria.


Va ricordata almeno un’ultima avvincente storia: quella dei bluesbusters: discografici d’assalto, talent scout, ricercatori, collezionisti. Nomi dimenticati come Henry C. Speir, il primo vero scopritore di Robert Johnson ( maledetto tra i maledetti) e Charley Patton o gli studiosi-attivisti dei diritti civili John e Alan Lomax o Howard Odum e il comunista Lawrence Gellert, infaticabile raccoglitore di canti di protesta. Questi personaggi hanno salvato il blues dall’oblio. Forse un giorno scopriremo che anche gli extraterrestri a causa loro si sono commossi al dolce, triste, beffardo suono del blues.