Francesco Cafiso – Angelica

Francesco Cafiso - Angelica

Cam Jazz – CAMJ 7820-2 – 2009




Francesco Cafiso: sax alto

Aaron Parks: pianoforte

Ben Street: contrabbasso

Adam Cruz: batteria






L’innato lirismo e la tecnica superba, non salvano da un piccolissimo passo indietro il giovanissimo, ma già grande, Francesco Cafiso.


In altre parole questo Angelica ci lascia in parte perplessi, ma con la speranza che possa costituire una tappa significativa nel percorso di maturazione dell’ex enfant prodige siciliano. Se in precedenza la sua crescita è stata determinata da una purezza di suono che guardava agli altosassofonisti di impronta parkeriana, adesso sempre voler inseguire stereotipi colemaniani e coltraniani che non fanno parte della sua indole. Da qui nascono i dubbi. Voler essere a tutti i costi moderni, bruciando le tappe, significa dover snaturare le proprie peculiarità?


Ad esempio la comparazione tra il CD newyorkese (New york lullaby, sempre inciso con un quartetto a stelle e strisce) e Angelica, sembra veder Cafiso compiere uno stand by con quest’ultimo. Dopo aver dimostrato di essere alla pari coi grandi d’Oltreoceano, adesso pare lanciarsi verso un’introspezione a ciclo chiuso che strizza l’occhio alle “vecchie” avanguardie. Qualcuno, tra i cosiddetti “critici progressisti”, non gli ha mai perdonato di essere troppo conservatore, forse dimenticando l’intensità di standard come Lullaby of Birdland o My old flame, giusto per citare ancora l’altro lavoro americano, che in realtà sono l’immortalità del Jazz. Questa volta, ancor più della precedente, il quartetto appare costruito a tavolino, meno spontaneo con Aaron Parks al piano, Ben Street al contrabbasso e Adam Cruz alla batteria. Quest’ultimo già apprezzato con Chick Corea.


La sensazione è che il voler compiacere certa critica discografica, abbia indotto Cafiso verso un cerebralismo che non gli abbiamo mai riconosciuto. Meno brillante di altre occasioni, un po’ troppo serioso, più meditativo ma non per questo “migliore”. In talune composizioni (comprese le sue) è come se gli avessero spento quella luce sfolgorante che caratterizzava la sua solarità mediterranea che sprigionava nei dischi realizzati con la sua ritmica italiana, oppure nelle performance con Dado Moroni e Dino Rubino (nelle vesti di pianista e non di trombettista). Non a caso gli episodi migliori lo vedono interprete dei classici A flower is a lonesome thing di Strayhorn, Peace di Horace Silver e Why don’t I di Rollins dove ritrova quel fraseggio dallo smalto unico, quella padronanza che stupì Wynton Marsalis al festival di Pescara. Eccellente quanto struggente è però la conclusiva Wynter sky di Nello Toscano. Forse da Ciccio Cafiso ci aspettiamo sempre il massimo e magari quel capolavoro che prima o poi arriverà. Vent’anni sono pochi per chi è designato tra i “messia” del Jazz mondiale.