Intervista a Michael Rosen

Foto: Fabio Ciminiera










Intervista a Michael Rosen.

Pescara, Sabato in Concerto Jazz 2009/10 – 9.1.2010



Abbiamo incontrato Michael Rosen a Pescara al termine del concerto che ha tenuto con il quartetto guidato insieme al chitarrista Dino Plasmati. Il punto di partenza della nostra chiacchierata sono stati i tre quartetti che vedono protagonista il sassofonista americano.



Jazz Convention. Tu sei protagonista di tre quartetti: questo con cui ti sei esibito qui a Pescara, guidato insieme a Dino Plasmati, il quartetto con cui hai registrato Unquiet Silence, e quello con cui hai suonato ieri (l’otto gennaio scorso – n.d.r.) a Radio 3. Parliamo delle similitudini e delle differenze tra queste formazioni.


Michael Rosen. Il Plasmati-Rosen Quartet è un quartetto prevalentemente acustico ed è l’unico dei tre quartetti dove lo strumento armonico è la chitarra, perché nel quartetto di Unquiet Silence c’è il pianoforte di Paolo Birro e nel quartetto Crush c’è il pianoforte e anche il Fender Rhodes, suonati da Claudio Filippini o Greg Burk a seconda di quello che sarà il musicista. In Crush, dove la ritmica è formata da John B. Arnold e Francesco Puglisi, ho portato i miei nuovi brani, molto basati sul groove: si tratta di un contesto molto moderno, dove c’è un ampio uso dell’elettronica, non solo sulle tastiere, con suoni che vengono filtrati. Il gruppo con Birro, Ares Tavolazzi e Fabrizio Sferra, invece è stato un progetto innanzitutto molto introspettivo, molto melodico: la musica del disco è sicuramente caratterizzata da atmosfere europee, mediterranee. E’ stato realizzato in un periodo della mia vita in cui mi sentivo molto vicino a quel tipo di sonorità. Il Crush Quartet in qualche maniera è più simile al quartetto con Dino: in quest’ultimo suoniamo prevalentemente i brani di Plasmati e, rispetto all’altro, è più jazz, un jazz moderno dove i pezzi hanno una struttura armonica forte e articolata, mentre nel mio nuovo progetto ci sono brani più modali, più basati sul groove.



JC. Se vogliamo disegnare una “linea” stilistica tra le tre formazioni, il quartetto con Plasmati si pone a metà strada tra la dimensione lirica di Unquiet Silence e la visione groovy di Crush.


MR. Si hai ragione, nel Plasmati-Rosen Quartet c’è un jazz piuttosto moderno e aperto, ma ci sono anche brani che sono più tradizionali, soprattutto per quello che riguarda l’utilizzo della batteria. Inoltre uso anche l’elettronica e presto anche Dino inserirà qualche effetto alla sua chitarra che ha un suono assolutamente jazzy. Quando io penso a un pezzo groove, penso a un pezzo dove il basso fa un ostinato o comunque disegna una figura ritmica che va dall’inizio ala fine del pezzo e sulla quale si sviluppano le parti degli altri strumenti, in una costruzione stratificata. Nelle composizioni di Dino lo sviluppo e la costruzione del ritmo segue maggiormente i canoni del jazz.



JC. C’è maggiore dialogo tra i solisti e la ritmica?


MR. Non so se si possa dire questo, dipende anche dalla qualità dei musicisti: se in Crush avessi dei musicisti più limitati, potrebbe crearsi una situazione con meno interplay, mentre in realtà non è così, grazie all’altissimo livello dei musicisti coinvolti. In quel contesto quello che ha le minori possibilità di movimento sarebbe il bassista: ma Francesco Puglisi è un musicista talmente straordinario che riesce a dare il suo apporto originale e a mantenere, allo stesso tempo, sempre vivo il groove… lo stesso si può dire di Greg Burk, Claudio Filippini e John Arnold. Il quartetto, forse, rimane ritmicamente più statico però c’è un grandissimo interplay anche in quel gruppo. Non direi quindi che c’è maggiore interplay in una formazione rispetto all’altra: ritmicamente parlando il quartetto con Dino è più basato sullo swing, guarda anche alla bossa o al funky, mentre il quartetto “americano” è guarda al groove e, infine, l’altro quartetto è molto melodico, molte strutture si avvicinano alla musica classica.



JC. C’è anche un’atmosfera molto narrativa, quasi cinematografica, nel disco che hai realizzato con Birro, Tavolazzi e Sferra…


MR. Mi hanno detto spesso che scrivo dei brani che potrebbero adattarsi bene ad essere la colonna sonora di un film e forse quel disco, molto lirico, rappresenta bene quel mio modo di vedere la musica. Ho dato sempre moltissima importanza alla melodia nel comporre e anche in questo nuovo progetto c’è la voglia di portare delle melodie interessanti, ma con l’intenzione di essere più spensierato, più orientato al groove, più americano alla fine, a livello ritmico.



JC. Anche perché, volendo fare una classificazione molto banale, la melodia “appartiene” maggiormente al mondo europeo, mentre tu venendo dall’America avresti dovuto riferirti in prima battuta al ritmo… ovviamente, per quello che possono valere delle generalizzazioni così drastiche…


MR. In effetti, per molti aspetti si sarebbe potuto pensare che io fossi più europeo rispetto a molti musicisti italiani che si riferiscono al suono dei classici americani. In un certo senso io sono l’americano che è venuto in Italia e si è fatto influenzare dal Mediterraneo e non lo rinnego assolutamente. In questo momento sento però di voler dare maggior risalto al mio essere americano, ma non voglio guardare al jazz tradizionale, bensì a livello ritmico, melodico e armonico mi oriento molto di più verso i suoni moderni che arrivano dalla New York di oggi, da Dave Binney a Mark Turner, o, guardando al passato, al Miles Davis elettrico.



JC. Abbiamo parlato di suono: in Crush, oltre all’elettronica, dai maggiore spazio al tenore o al soprano? Ho notato che negli altri progetti hai usato maggiormente il soprano…


MR. Questo è avvenuto mio malgrado: in realtà, non mi trovavo perfettamente con il tenore che avevo. Circa un anno fa, ho cambiato e mi sento molto più a mio agio e, di conseguenza, mi è tornata la voglia di suonare il tenore. E’ successo che da quando ho cominciato a scrivere musica, per qualche motivo, l’ottanta per cento dei pezzi che scrivo funzionano meglio con il sax soprano, per questioni di sonorità. Questo forse dipende anche dal fatto che il sax tenore tende ad avere un suono più riconducibile al jazz classico, mentre il soprano, innanzitutto, è uno strumento meno utilizzato e si presta di più a certi tipi di melodie che io tendo a scrivere. Proprio per questo ho l’intenzione di cercare di scrivere molti più brani per il tenore che finalmente in questo momento mi appaga.



JC. Per quanto riguarda l’elettronica, oggi abbiamo visto come con gli effetti sei andato a colorare il suono, non ci sono state loop station o costruzioni armoniche. E’ così anche nel progetto “americano”?


MR. Per il momento si, almeno per quanto riguarda il sassofono. La mia intenzione, però, è quella di approfondire questa dimensione: sono veramente all’inizio di questo percorso, ho appena preso una pedaliera con una vasta gamma di suoni e di possibilità ma devo ancora imparare ad usarla in modo più profondo. Con il mio nuovo quartetto tante delle cose elettroniche che succedono sono frutto del lavoro di John Arnold e del suo computer oppure delle invenzioni di Claudio Filippini. In realtà, avrei anche la loop station ma non mi sento ancora abbastanza sicuro per sfruttarla dal vivo. In generale, la pedaliera la uso solamente nel mio nuovo gruppo, nel quartetto con Dino Plasmati e nel quartetto di Stefano Raffaelli, in cui ho portato anche John Arnold.



JC. Una cosa completamente diversa per quanto riguarda io suoni è l’incontro con i musicisti de La Scala.


MR. E’ un rapporto che è nato qualche anno fa, quando ho suonato prima in concerto e poi ho partecipato ad un disco con un gruppo di musicisti messo insieme da Giuseppe Ettorre insieme a Beppe Cacciola, rispettivamente primo contrabbassista e percussionista de La Scala. Ovviamente non si tratta di fare del jazz, ma abbiamo suonato delle cose più creative e rivolte all’improvvisazione rispetto a quello che loro solitamente fanno, partendo da Piazzolla e altri autori simili. Nel prossimo mese di maggio, Bobby McFerrin dirigerà a La Scala e mi hanno chiamato per fare qualcosa di ridotto, che non coinvolga tutta l’orchestra: ci sarà Bobby McFerrin alla voce e hanno coinvolto me come solista. Adesso dobbiamo vedere come organizzare il repertorio: avremo una settimana di prove e sarà interessante vedere cosa viene fuori. I musicisti de La Scala non sono jazzisti, sono loro i primi a dirlo, non sono sempre a loro agio con il walking bass e cose del genere, non hanno questo tipo di background. Sarà una sfida: dovremo capire bene come arrangiare i brani in modo da sfruttare tutte le potenzialità di questo incontro e i lati forti di ciascun musicista, per mettere tutti a proprio agio.



JC. Per chiudere parliamo di Gianluca Pellerito. Tu sei il suo direttore artistico: raccontaci innanzitutto, come si svolge il tuo lavoro in questo senso e poi quali sono gli obiettivi di questo ragazzo, quali saranno i suoi prossimi passi?


MR. E’ ancora presto per poter dire cosa succederà. Innanzitutto deve decidere cosa fare della sua vita: è un ragazzo di quindici anni che si diverte molto a suonare la batteria, ma si diverte molto anche a fare tutte le cose che fanno i ragazzi della sua età, Gianluca potrebbe decidere di fare l’avvocato o qualunque altro mestiere. Ci siamo conosciuti l’anno scorso perché ero nella resident band del programma di Fiorello e Gianluca e venuto, accompagnato dal padre, come ospite: è stato lo stesso Fiorello a chiedermi di organizzare la situazione e, insieme al bassista, abbiamo suonato un arrangiamento creato all’istante di Summertime. Gianluca si è trovato bene con me e a me ha fatto molta simpatia, anche per la grinta che ha: il giorno dopo, il padre mi ha chiamato proponendomi di dirigere il suo nuovo gruppo. Credo che abbia visto in me una persona disponibile: ha notato come si sia creato in modo naturale un affiatamento tra me e Gianluca e come abbiamo lavorato per mettere in evidenza le qualità di Gianluca. Dopo quell’incontro ho scritto vari arrangiamenti e abbiamo fatto diverse date e tutte sono andate benissimo: abbiamo messo su un sestetto di grande livello, un progetto funky che non pretende di essere ultra-sofisticato ma punta ad essere divertente, piacevole anche e soprattutto per Gianluca, rispettando il suo carattere. C’è stata grandissima attenzione a livello di stampa nei suoi confronti: secondo me, Gianluca ha tutte le carte in regola per avere un grande successo, anche se ha ancora molta strada da fare, deve studiare e imparare nuovi stili, se avrà voglia di farlo può avere una grande carriera. E’ molto comunicativo sul palco, fa molto piacere vedere come suona e come si comporta durante i concerti, arriva alla gente e questo è anche abbastanza raro per i musicisti italiani che tendono sempre a nascondersi su palco. Non è il suo caso, lui si sente proprio a suo agio sul palcoscenico. Il termine enfant prodige per me non ha un grosso significato. Secondo me, un musicista di qualsiasi età è la somma del talento che ha e dell’impegno che ci mette. Spesso i cosiddetti enfant prodige sono semplicemente delle persone che sono molto brave ma spesso tendono a rimanere stilisticamente là dove hanno cominciato. Questo con Gianluca è ancora da vedere: sicuramente ha grandissimo talento per la sua età ma, come per tutti gli altri, non gli basterà solo il talento, dovrà svilupparlo, dovrà fare delle esperienze. Dipenderà dalla sua voglia di farlo: è lui che deve decidere quale direzione prendere.