Da Faber a Hendrix. Intervista a Giovanni Falzone.

Foto: Andrea Boccalini






Da Faber a Hendrix.

Intervista a Giovanni Falzone.

Monza, Teatro Binario 7 – 16.10.2009


In occasione del concerto (col botto) che ha inaugurato l’edizione 2009\2010 della rassegna “Lampi”, ormai diventata un punto di riferimento per tutto l’hinterland monzese e non solo, in particolare per quanto riguarda la musica improvvisata e, in generale, di ricerca, sul palco è salito l’esplosivo quartetto di Giovanni Falzone, formato, oltre che dalla formidabile tromba del leader, da Michele Tacchi al basso elettrico, da Valerio Scrignoli alla chitarra elettrica e da Riccardo Tosi alla batteria. Al loro fianco per l’occasione c’erano la voce “cantante” di Arsene Duevi e quella recitante di Debora Mancini: il tutto per dar vita ad un particolare omaggio alla musica e ai testi di Fabrizio de André. Come ci dirà anche Falzone stesso nell’intervista che segue, naturalmente si è tratto di un processo di filtraggio della musica di De André attraverso l’intenzione musicale di Falzone: riconoscibilissime alcune canzoni molto note del musicista genovese, ma anche brani composti dallo stesso Falzone che non hanno perso nulla dell’incredibile “tiro” che ha reso l’Electric Quartet famoso in tutta Europa.


Abbiamo raggiunto Falzone sul palco, al termine del concerto, per una breve intervista su questo stesso concerto e su quello che lo stesso Electric Quartet ha tenuto, di nuovo al teatro Binario 7 di Monza, il 16 e 17 gennaio, questa volta rendendo omaggio alla musica di Jimi Hendrix.



Jazz Convention: Una domanda di rito, tanto per rompere il ghiaccio: com’è nato il progetto di portare sul palco la musica di De André filtrata attraverso il tuo tipico stile jazzistico?


Giovanni Falzone: Quella che ho messo in atto in questo concerto è una logica che tento di fare mia in ogni caso, quella di cercare di personalizzare tutto ciò che mi capita di affrontare in ambito musicale. Quando Saul [Beretta, n.d.r.] mi ha parlato di questo progetto, ormai più di un anno fa in occasione del festival dedicato al cantautore genovese al teatro Dal Verme di Milano, ho subito espresso il desiderio di portare la mia visione della musica dentro quella di De André, e quella di De André dentro la mia, per così dire. Preferisco pensare a questi grandi artisti, che hanno dato un enorme contributo alla storia dell’umanità, come esempi proprio per la creatività, per la spinta a costruirsi una personalità autonoma e originale. In questo progetto ho lavorato su canzoni che sono anche notevolmente diverse dal mio repertorio consueto: trattarle in un modo originale era quindi necessario, anche per non andare a snaturare qualcosa che già di per se funziona benissimo. E’ un tributo che guarda all’artista in senso più ampio, cercando di tradurre in suono la drammaticità della parola, per così dire, facendo diventare la parola suono… E’ mio costante obbiettivo cercare di entrare in quello che faccio dandogli un significato nuovo e personale.



JC: Sempre qui al Teatro Binario 7 di Monza hai tenuto anche un concerto-tributo a Hendrix. Per chiedertelo con una battuta, qual è stato tra i due il più difficile?


GF: Non direi che si possa parlare di maggiore o minore difficoltà… Sicuramente sono molto diversi, con De André c’è di mezzo la canzone d’autore classica, quindi c’è il testo che, recitato o cantato che sia, è comunque sempre ben presente. Quello a Hendrix è invece un tributo completamente musicale. Ho sempre sentito parlare dell’incontro mai avvenuto tra Miles e Hendrix, e l’idea di cosa avrebbero potuto “combinare” insieme mi ha sempre molto stimolato, visto quello che sono riusciti a creare ciascuno nel proprio ambito. L’incontro non avvenne mai a causa della morte prematura di Hendrix: io ho preso dei brani dell’uno e dell’altro, oltre che a brani miei, e li ho fatti diventare una sorta di racconto, il racconto di un incontro immaginario al quale ho partecipato anch’io. E’ tutto più indirizzato verso il jazz-rock, proprio sull’orma di Miles che è stato d’esempio, in materia di contaminazioni, sia ai musicisti rock (basta guardare lo spazio che ha trovato il brano “So What” di Kind of Blue in altri ambiti musicali) sia naturalmente ai jazzisti. Ora questo lavoro è diventato anche un disco pubblicato da Cam Jazz intitolato “Mosche Elettriche. Around Jimi”.



JC: Le tue riflessioni su Miles mi lanciano una palla che prendo al balzo: è vero che Miles ha guardato tanto alla musica rock dei suoi anni, ma aveva anche un’attenzione marcata per la contemporaneità europea. Qual è il tuo rapporto con la cosiddetta “musica contemporanea” di estrazione accademica?


GF: Mi interessa molto, devo dire. La guardo e ci sono stato anche dentro per un bel po’, avendo collaborato a lungo con l’Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”. Sono convinto che la contaminazione, anche in questa direzione, possa contribuire a trovare formule espressive alternative e personali.



JC: Proprio questo tipo di influenza si vede forse nel tuo ultimo disco.


GF: In realtà è presente in tutta la mia produzione discografica, ma in particolare proprio nell’ultimo disco, “R-Evolution Suite”, registrato con la Contemporary Orchestra, faccio effettivamente largo uso della musica contemporanea. Ho “contrapposto”, per così dire, un settetto jazz a un quintetto di sassofoni di concezione classico-contemporanea, creando un quadro sonoro decisamente particolare. Non ho mai guardato molto al commercio nei miei lavori, e qui si sente molto bene.



JC: Devo dirti però che, a quanto mi pare, per quanto riguarda il successo almeno qui in Italia, nonostante il tuo “disinteresse” per il lato commerciale, vai piuttosto bene, soprattutto come presenze dal vivo…


GF: E’ vero, e di questo non posso che essere felice. A volte mi sento una mosca bianca in questo senso, però questa, molto probabilmente, è la dimostrazione del fatto che c’è anche tanta gente a cui interessano le cose non necessariamente commerciali. Per mia fortuna in Italia riesco a lavorare discretamente, molti apprezzano il mio lavoro e mi permettono di continuare a farlo. Nell’arte c’è sempre uno stretto rapporto tra “chi fa” e “chi fruisce”: senza pubblico, probabilmente, non avrei quella necessaria fiducia che mi permette di fare quello che faccio. Nonostante il consumismo dilagante, insomma, sapere che ci sono persone che apprezzano cose più alternative mi rende felice.



JC: Parlando più in generale allora ti chiedo: cosa ne pensi della scena italiana?


GF: Dal punto di vista dei giovani musicisti è eccellente, e difficilmente teme rivali. Ho qualche dubbio invece dal punto di vista della progettualità. Avverto una, a volte quasi paranoica, paura a spingersi nelle produzioni. Chiaramente ci sono anche tante belle eccezioni che fanno ben sperare… ma spesso fanno veramente fatica ad emergere a causa dell’andamento generale delle cose.



JC: C’è da dire che comunque molti musicisti italiani dell’ultimo decennio hanno comunque contribuito ad esportare un’immagine forte del jazz italiano…


GF: I musicisti italiani sicuramente hanno ottenuto un posto di massimo e meritato rispetto nel panorama mondiale del jazz. Questo non può che farmi enorme piacere!



JC: Progetti futuri?


GF: Mi piacerebbe creare una piccola mia etichetta indipendente per poter pubblicare, anche solo per pochi intimi, tutti quei lavori che negli anni si sono accumulati nel mio archivio musicale, e che altrimenti, visto le logiche perverse di mercato, non troverebbero mai la luce. So che si tratterà di un impresa non semplice ma voglio crederci. Vi terrò aggiornati…