Slideshow. Lutte Berg

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Lutte Berg.



Jazz Convention: Qual è il tuo primo ricordo del jazz?


Lutte Berg: Difficile ricordare… ma probabilmente è stato il disco di Jan Johansson “Jazz på Svenska”. Quel meraviglioso disco era in casa di tutti i svedesi ed è stato forse il più grande incontro tra musica popolare e jazz. Allora non sapevo che fosse jazz. Per me era solo musica stupenda. Se guardo più in avanti il momento più illuminante è stato sicuramente l’apparizione di Mike Stern in “Fat Time” con Miles Davis. Mi ricordo ancora… andavo al liceo musicale e l’uscita di “The man with the horn” ci fece capire che si poteva suonare anche con chitarre distorte non solo da rockettari!



JC: Ma cosa ti ha spinto a diventare una musicista jazz?


LB: Non so se sono un musicista jazz. Se jazz significa composizione, improvvisazione, interpretazione, ascoltare e dialogare con chi suona con te… allora sono anche io un musicista jazz e la ragione di essere un jazzista sta proprio nell’esigenza mia di affrontare una canzone sempre con mente e cuore aperto a qualsiasi soluzione. La staticità fa male!



JC: Quali sono i jazzisti che hanno contato e che contano nella tua carriera artistica? E ci sono pianisti in particolare?


LB: Odio fare le classifiche dei musicisti che amo, ma se devo trovare qualcosa sicuramente la mia mente va alla produzione degli anni settanta e ottanta di Manfred Eicher e la sua ECM. Noi scandinavi siamo cresciuti con Jan Garbarek, Terje Rypdal e tutti quei meravigliosi musicisti che aprirono una strada “nostra” nel jazz mentre altrove c’era un riferimento totale al suono e al modo di interpretare americano. Se devo fare altri nomi i primi che mi vengono in mente sono Ralph Towner, Bill Frisell, Abercrombie, Palle Danielsson, il Jarrett di “My song belonging”. I pianisti che amo di più sono sicuramente Jan Johansson, Richard Beirach, Il Steve Kuhn di “Home” (Steve Swallow)…



JC: E il momento più bello nella tua vita di musicista?


LB: Deve ancora venire… si spera!



JC: Tra i molti dischi che hai registrato, ce n’è qualcuno che ami più degli altri?


LB: Penso che tutti noi compositori e musicisti amiamo le ultime cose fatte. Sta nella logica delle cose. Si spera di andare sempre avanti e quindi le ultime cose sono sicuramente le più mature. Tra i miei lavori penso che “Landskap”, uscito alla fine del 2009, sia la più bella. Il sound del mio Ensemble oramai è abbastanza definito e difatti sono bastati un giorno e mezzo per registrare l’intero album. Sono anche soddisfatto dell’ultimissimo lavoro della Gabriele Coen Jewish Experience, prodotto da John Zorn.



JC: Riesci ad azzardarci una definizione di jazz?


LB: La definisco… Musica. Mi scuso per la provocazione, ma la buona musica rimane buona musica. Per fortuna le barriere stilistiche stanno scomparendo (dovrebbero sparire tutte le barriere!) ed il jazz si nutrirà sempre di tutte le cose che la circonda, come ha sempre fatto del resto.



JC: Ma cosa associ al jazz, a livello di idee, concetti o sentimenti?


LB: Mi viene in mente… la mente aperta. Il sapersi guardare intorno. Miles ne era un maestro (e ogni volta i benpensanti storcevano il naso). Farsi nutrire dalla musica popolare in ogni angolo del mondo, ascoltare “tutte le musiche” e trarne l’ispirazione per progetti futuri è essenziale, cosi come facevano grandi maestri come Bartok, Dvorak ed altri ancora!



JC: E come vedi, in generale, la situazione attuale di tutta la musica jazz?


LB: Dipende dove guardi. In Italia (in buona parte) è ancora l’America che regna, anche se sta cambiando qualcosa. Altrove le barriere stilistiche sono oramai sparite. La “puzza” sotto il naso di alcuni ambienti deve sparire. Il jazz non è “meglio” di altra musica. Il jazz è semplicemente… musica.



JC: Cosa stai facendo adesso, musicalmente?


LB: Ora sono intento a presentare il mio nuovo lavoro “Landskap”, registrato per la Wide Sound, con il mio Ensemble, ormai stabile da diversi anni, formato da Alessandro Gwis, Luca Pirozzi, Massimo Manzi ed io. Poi si inizierà a promuovere il disco di Gabriele Coen Jewish Experience prodotto da John Zorn. Dovrei andare in sala per registrare un trio con Marco Siniscalco, Emanuele Smimmo e con il mio amico Javier Girotto come ospite. Mi scuso per tutti gli altri progetti che non nomino…



JC: Fai parte di una lunga lista di jazzmen stranieri – Chet Baker, Tony Scott, Steve Lacy, Gato Barbieri, Don Cherry, Lilian Terry – che hanno vissuto per periodi più o meno lunghi in Italia; tu come ti trovi nel nostro Paese?


LB: Io sono il risultato di una madre svedese e un padre italiano. A un certo punto, dopo 25 anni in Svezia, volevo cambiare aria. Ho deciso di scendere in Italia per vedere che aria tirava. Per il momento mi trovo bene anche se torno spesso in Svezia, per purificarmi, sul mio lago dove non c’è nessuno. Mi abbraccia la natura, vivo di pesca, ed è una cosa bellissima.