Slideshow. Enzo Favata

Foto: Luciano D’Agostino. Phocus Agency










Slideshow. Enzo Favata.



Jazz Convention: Così, a bruciapelo, Enzo, cos’è e com’è il tuo nuovo disco?

Enzo Favata: The night of the storytellers è un disco notturno che parla sussurrando ad un mondo in cui tutto urla: i media, la politica, la società, tutto deve alzare i toni. Il livello dei decibel sia fisici che psicologici è altissimo ed ho voluto giocare su di un contrasto estremo per cui nelle tracce del disco si assapora l’odore della notte dove il sapore speciale del racconto si ascolta in silenzio.


JC: Se non erro, erano anni che volevi fare un disco del genere?

EF: Certo! un trio chitarra contrabbasso e sassofoni con sonorità cameristiche a cavallo tra improvvisazione jazz, musica classica e riverberi popolari in un gioco di penombre e tenui riflessi. E’ stato quindi meditato senza dubbio, avevo il chitarrista Marcello Peghin con il quale collaboriamo da più di vent’anni ma non trovavo il contrabbassista giusto. Sin quando per caso ho incontrato su myspace con Yuri Goloubev che era stato per 12 anni in giro per il mondo a suonare la musica classica con i Solisti di Mosca e poi aveva abbandonato tutto per il jazz, mi incuriosiva questa storia e poi il suo suono era quello che ci voleva ovvero uno strumento ritmico armonico che allo stesso tempo si tramutava in un violoncello che è uno strumento melodico quanto il mio sassofono ed il disco ne è il risultato. Il trio non è un triangolo, bensì consideriamolo un cerchio, come la circolarità della musica e delle idee che trasudano.


JC: Ascoltando appunto The night of the storytellers si avverte qualcosa come la quintessenzialità del suono, del fare musica…

EF: La cosa speciale della musica è quella dell’incontro, del coinvolgimento, se non c’è quello non può esistere il resto. Siamo andati in studio dopo una serie di concerti lo scorso anno, durante la registrazione abbiamo suonato con grande interplay e dalle cuffie monitor credo ogni uno di noi abbia sentito scorrere l’anima della musica, siamo gente abituata ai concerti alle registrazioni ma quando abbiamo messo su il cd alla fine dei mixaggi ed abbiamo ascoltato ci siamo resi conto che quel che era venuto fuori ed era una cosa speciale.


JC: Speciale in quale accezione?

EF: Speciale anche l’idea della storia da raccontare che nasce anche da suggestioni da cui si è sviluppato il concept album ed il suo titolo, per una prima volta ho voluto affiancare musica e fotografie senza nessun commento se non la semplice didascalia che indica il luogo dove sono state scattate. L’immagine della copertina raffigura la piazza Jemaa El-Fna di Marrakech, considerato il luogo per antonomasia degli “storytellers” più famosi del mondo arabo, quell’immagine l’ho scattata io furtivamente nella piazza, durante una tournée in Marocco.


JC: Bell’idea! Ci racconti qualcosa in più di questo?

EF: Avevamo un day off a Marrakech arrivammo nel tardo pomeriggio e dopo aver mangiato sapendo della piazza andammo a vederla, non era permesso scattare foto e poi se mi fossi messo a cercare le pose migliori avrei disturbato l’atmosfera speciale che si viveva; era una piazza piena di capannelli di gente disposta ad ascoltare, di narratori che facevano quello per lavoro. La cosa mi aveva colpito molto,una contrapposizione rispetto al nostro mondo dove saper ascoltare è cosa di pochi. Quella notte resterà impressa nella mia vita come la notte dei narratori The night of the storytellers.


JC: Nel disco, poi, è come se ci fossero diverse immagini, giusto?

EF: Come ti ho detto in The night of the storytellers per me sono presenti molte immagini suggestive, partendo da quelle appartenenti alla cultura Latinoamericana, la motocicletta del Che, i tramonti, i mari, fino alle atmosfere primaverili, tanto che oltre all’udito è implicato anche il senso della vista. Tutto questo ha un senso anche perché la fotografia è una mia passione sin da bambino, mi ritengo un fotografo della domenica, anche se oramai in molti vorrebbero che facessi delle mostre, visto che applico la tecnica del mio approccio multiculturale anche alla fotografie. Comunque sono un fotografo fortunato perché la musica mi porta in giro per tutto il mondo e davanti all’obbiettivo trovo tante storie che hanno voglia di raccontarsi ed io non faccio altro che registrarle come registro le influenze delle varie culture nella mia musica, è andata così che dall’incontro tra le mie immagini e la mia musica è nato per questo concept album The night of the storytellers Le storie che si ascoltano al suo interno sono pura cinematografia del suono.


JC: Il disco per chi è edito?

EF: Lo è per Isola dei suoni (distribuzione Egea),una giovane etichetta di cui sono socio, fondata per dare voce a differenti idee nella musica ed è una esperienza molto appassionante.


JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è un altro a cui sei particolarmente affezionato?

EF: Ce ne sono tanti ogni uno per il suo senso e per il suo periodo, di sicuro Ajo registrato insieme Dino Saluzzi è stato un passo importante nella mia carriera anche se poi Atlantico è stato il disco che mi ha portato di più in giro per il mondo con i suoi oltre trecento concerti in un paio di anni.Voyage en Sardaigne è stato il disco che mi ha fatto conoscere al grande pubblico, anche se i premi della critica tedesca li ho presi con il visionario Made in Sardinia ed il mistico Boghes and Voices per Synphonia ed Armonia Mundi, per arrivare agli ultimi il visionario caotico e metropolitano The New Village ed il poetico The night of the storytellers.


JC: Se ti va di dirlo, quali sono i musicisti con cui ami collaborare?

EF: Ho lavorato molto con musicisti come Marcello Peghin un chitarrista straordinario che si è formato insieme a me in un percorso ventennale. Nel corso degli anni sicuramente con Dino Saluzzi, Daniele Di Bonaventura anche lui bandoneonista,UT Gandhi alla batteria Yuri Goloubev, la violoncellista Anja Lechner con cui ho registrato il mio prossimo disco, Miroslav Vitous con il quale suoniamo spesso insieme in quartetto con Di Bonaventura e UT Gandhi. Ci sono tanti italiani che adoro, li cito perché ci troviamo benissimo e sono grandissimi musicisti : il contrabbassista Danilo Gallo il pianista e guru dell’elettronica Alfonso Santimone il trombettista Riccardo Pittau, i Tenores di Bitti, Maurizio Brunod ed altri. Infine una schiera di musicisti popolari con cui adoro suonare musica tradizionale della Sardegna per diletto.


JC: Invece, quali sono stati i tuoi maestri assoluti?

EF: Sullo strumento John Coltrane, Wayne Shorter, Jan Garbarek, John Surman e Paul Mc Candles ma anche le influenze di Egberto Gismonti, Dino Saluzzi, Villa Lobos sono importanti. Ho vissuto un’esperienza strana nella Sardegna degli anni settanta: per una serie di coincidenze Lester Bowie aveva passato un mese in Alghero e frequentava una biblioteca molto attiva della mia città. Dai suoi racconti conobbi la new thing, la great black music, gli Art Ensemble of Chicago. Era il tempo della coscienza afroamericana in USA ma anche in Sardegna si era iniziato a valorizzare la tradizione popolare, sino ad allora considerate roba da ignoranti di paese, era arrivato il tempo de su connottu, il tempo della coscienza del popolo sardo, tutto questo nella mente di un ragazzino è stato un lavoro importante. Con Lester suonai poi insieme un paio di volte e lui è rimasto sempre legato alla Sardegna


JC: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?

EF: Una storia lunga ho iniziato per caso e lo strumento (il sassofono soprano) mi ha cercato inseguito e trovato, sai da ragazzo suonavo la chitarra insieme ad altri due amici facevamo la musica delle garage band di allora, ma forse perché erano i periodi in cui c’erano in giro gruppo come i Genesis, i Tangerin Dream, Emerson Lake& Palmer ecc… Ci piaceva sperimentare nuove sonorità e melodie, un giorno il capogruppo (eravamo in tre) disse “qui ci vuole uno strumento solista un fiato per esempio altrimenti non va bene”, nessuno era disposto a lasciare la chitarra allora tirammo a sorte ed io… naturalmente persi. Non avendo i soldi per pagarmi uno strumento, andai a vendemmiare – da queste parti c’è una grande tradizione del vino – e con qualche risparmio trovai uno strumento vecchissimo da comprare usato, era un sax soprano. Di lì a poco incontrai la musica di John Coltrane con My favorite things ed il danno fu fatto mi innamorai del jazz e di Coltrane e del sassofono soprano, avevo 18 anni.


JC: Così hai iniziato la tua strada musicale…

EF: La strada musicale l’ho percorsa prima da autodidatta poi in banda poi lo studio del jazz dai dischi copiando i soli e le strutture In sintesi ad un certo punto della mia conoscenza del jazz dopo aver frequentato i seminari di Siena e suonato e registrato con una giovane band jazz, incominciai a scoprire la Sardegna e la musica della mia isola. Fu il secondo innamoramento. In quel tempo conobbi i Tenores di Bitti,, poi ho incominciato a scrivere scomponendo i ritmi e le melodie della musica popolare, ad improvvisare introducendo elementi della stessa, a suonare con suonatori di launeddas, cori a tenores eccetera… Poi sono approdato alla musica classica ed al conservatorio da grande ed è stato un bel percorso anche se molto faticoso.


JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?

EF: John Coltrane, il suo sassofono soprano ed il disco My Favorite Things.


JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?

EF: “Se ti chiedi cosa è il jazz non lo saprai mai”, 1946 circa, Louis Armstrong, che dire di più?


JC: Dai, però, dimmi qualcosa in più!

EF: Oggi il jazz è ancora più complesso come lo è la musica e le culture contemporanee, soffermarsi alla definizione accademica è veramente riduttivo ma questo sta succedendo soprattutto in Italia dove le accademie hanno cristallizzato il concetto ad un periodo storico e non vanno né prima nè dopo gli anni 50/60, c’è un revisionismo storico diffuso che non fa bene e quindi si è creata una generazione di musicisti e spesso di pubblico che hanno un gusto omologato da mac donald, questo non fa bene all’arte Ma comunque ritengo che la parola jazz oggi sia una summa di stili e di inspiegabili alchimie proprio come appariva 60 anni fa a Satchmo.


JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?

EF: Nel mondo si vedono i segnali, guarda i Norvegesi che fanno ma anche molti altri musicisti delle aree metropolitane, difficilmente credo ci saranno impulsi dai giri che ruotano nelle grandi metropoli e sono più vicini al mondo della comunicazione.


JC: Io credo che Il jazz si potrà evolvere dalle periferie ed attraverso Il talento anche questo è da considerarsi a seconda del punto di vista.

EF: E dal tuo punto di vista?


JC: Dal mio, il talento è una summa di capacità strumentali, idee innovative creatività e soprattutto apertura mentale, nel jazz oggi un talento deve conoscere ed apprezzare i vari linguaggi musicali, deve amare la musica nella sua globalità ed imparare a “sfruttarne” le diversità per creare un proprio linguaggio solo così può uscire dall’omologazione, sia da un punto di vista compositivo che esecutivo.

EF: Un elemento importante per uno strumentista soprattutto a fiato (come me) è la sua voce, che deve essere personale, la voce è composta da timbro calore ed articolazione del fraseggio, questo ha reso immortali musicisti come John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis ed altri, copiarne il loro suono il fraseggio è uno “step” scolastico che va bene ma identificare il proprio suono in quelli non è talento è altro.


JC: Qualche esempio?

EF: Per farti un esempio più realistico, nell’arte figurativa se un pittore realizza la copia perfetta della Gioconda di Leonardo da Vinci è un bravo copiatore, ha tecnica, ma è un “crostaro” senza dubbio non è considerato un grande artista. E’ sorprendente come in certi ambiti jazzistici chi copia Miles Davis o Chet Baker è considerato un grande… “questo è un mistero della fede… jazzistica”!!!


JC: Tuoi impegni presenti e futuri?

EF: Lo scorso novembre ho registrato come band leader per la ECM il disco uscirà in autunno, lo abbiamo registrato con un quartetto che mi riporta alla formazione del mio primo disco Jana. Al violoncello Anja Lecher la chitarra classica 10 corde e viola caipira Marcello Peghin alle percussioni e batteria UT Gandhi ed io sax soprano sopranino clarinetto basso e clarinetto contralto. E’stata un esperienza importante e stimolante lavorare con Manfred Eicher in studio, una formazione di altissimo valore, ma di questo ne potremo parlare in futuro quando uscirà il disco.


JC: Per il resto?

EF: Avrò tournée con il Trio di The Night of The Storytellers, in tentett con the New Village, di nuovo in Africa e poi India. Una bella cosa sarà il riprendere il mio spettacolo per orchestra sinfonica quintetto jazz e cori a tenores Voyage en Sardaigne che riprenderemo con una serie di concerti la prossima estate.


JC: E infine, più vicino a noi?

EF: Il prossimo impegno importante l’11 aprile al Blue Note di Milano, dove presenteremo The night of the Storytellers sarà una serata speciale.