Slideshow. Stefania Tallini

Foto: Laura Camia










Slideshow. Stefania Tallini.



Jazz Convention: Nel jazz ti consideri più pianista, solista, compositrice o altro ancora?

Stefania Tallini: Mi considero “intera”, in tutti questi aspetti insieme, nel senso che l’uno nutre l’altro continuamente. Ma certamente la mia essenza più profonda è nell’essere compositrice, su questo non ho dubbi…


JC: L’essere donna ti ha avvantaggiato o no nella carriera di jazzista?

ST: No, anzi, devo dire che negli anni – a differenza di ciò che pensavo agli inizi della mia carriera – ho scoperto con sorpresa che in certe situazioni serpeggia sempre un po’ di diffidenza di fronte ad una donna che è leader di progetti a suo nome, che suona e arrangia la sua musica, dirigendo gruppi di musicisti uomini. Ora ne sorrido, a volte mi rattrista. Direi di no, l’essere donna rende tutto più difficile, soprattutto in un ambiente prettamente maschile come quello del jazz.


JC: Ora mi racconti il primo ricordo che hai della musica?

ST: Vivevo in una casa a Roma, con un cortile dal quale arrivava tutti i giorni il suono di un organo che suonava Bach. Era un liutaio che aveva la bottega proprio nel nostro palazzo e che – riparando gli organi – li provava suonando vari brani. Dal cortile risuonava quella musica ed io rimanevo ad ascoltarla affascinata. Poi un giorno, avevo 4 anni e mezzo, ero in un negozio di strumenti musicali con mia madre che doveva comprare una tastiera a mia sorella… Mentre lei parlava con il commesso, mi sono allontanata per raggiungere un pianoforte e ho cominciato a cercare – trovandola a orecchio – la melodia di Bach che sentivo sempre: era l’Aria sulla quarta corda. Questo è il primo ricordo musicale. E da quel giorno non ho più smesso di suonare.


JC: Quali sono stati i tuoi maestri?

ST: Gli ascolti. La musica jazz, quella classica e brasiliana: Chet Baker, Bill Evans, Miles Davis, Wayne Shorte. Chico Buarque, Guinga, Jobim, Edu Lobo, Elis Regina. Bach, Chopin, Debussy, Mozart, Ravel.


JC: E quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?

ST: La spinta più forte, quella che un giorno mi ha fatto decidere di prendere questa direzione, è stata l’aver ascoltato un disco di Chet Baker che mi fece piangere, quando avevo 17, 18 anni. Quel giorno – non lo scorderò mai – è stato per me l’inizio del jazz nella mia vita.


JC: Chi sono i musicisti con cui ami collaborare?

ST: Tutti quei musicisti che hanno una sensibilità tale da non dovergli spiegare nulla su come voglio che la mia musica venga interpretata. E quelli con cui il rapporto umano è bello. Gabriele Mirabassi – ma in generale i musicisti con cui lavoro, vale a dire Nicola Angelucci, Pietro Ciancaglini, Salvatore Maiore e tutti gli altri – sono sempre capaci di una sensibilità musicale notevole, che sanno cogliere il senso di quello che voglio trasmettere con la mia musica


JC: Il momento più bello della tua carriera di musicista?

ST: Sentir suonare da una Big Band un mio brano (Minor Tango) scritto per il concorso internazionale di Barga Jazz. Era il mio primo arrangiamento per orchestra fatto al livello professionale e non solo ho avuto la gioia di sentire 22 elementi suonare quello che avevo scritto, ma anche la sorpresa incredibile di vincere il primo premio. E poi sicuramente aver suonato un paio di volte Quirinale, per I Concerti del Quirinale, ripresi in diretta sul circuito europeo EBU (European Brodcasting Union). Una scarica di adrenalina!


JC: Tra i dischi che hai registrato, quale ami di più?

ST: Sicuramente Maresìa, ma in generale amo sempre di più l’ultimo che ho fatto. E ho appena registrato il mio nuovo album in Piano Solo, dal titolo The Illusionist. Ora sento che questo mi rappresenta totalmente.


JC: I tuoi impegni futuri nell’immediato e a lungo termine?

ST: Fare la promozione del nuovo disco e pensare ad un nuovo progetto con Paul Mc Candless. Ma anche portare avanti un paio di progetti sulla musica brasiliana che amo.


JC: Come definiresti il jazz?

ST: La musica più libera e profonda che ci sia. Ma può anche essere una musica molto vuota ed esibizionista, se vissuta in un modo diverso. E questo è il tipo di jazz che non amo.


JC: Ma, per te, ha ancora un significato oggi la parola jazz?

ST: Per me ha un significato solo la parola “musica”. No, il jazz oggi va in direzioni talmente imprevedibili e non classificabili che mi sembra un po’ riduttivo etichettarlo. Io stessa non suono jazz nel vero senso della parola. Io suono la mia musica e non mi interessa che tipo di musica è.


JC: E quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?

ST: La libertà, appunto… l’apertura mentale e artistica che permette al jazz contaminazioni di ogni tipo, senza mai perdere la sua identità; poi il rapporto tra i musicisti, che credo sia fondamentale per la buona riuscita della musica.


JC: Come vedi, in generale, il presente della musica jazz?

ST: Ritengo che a volte ci sia un po’ troppa confusione nel jazz di oggi e che la bellezza di questa musica venga in certi casi scambiata per show. L’esibizionismo che c’è in un certo modo di fare jazz non mi piace e se questa musica andasse sempre più solo in questa direzione non sarebbe più jazz…