Rosario Giuliani @ Blue Note Milano

Foto: Katia Paravati









Rosario Giuliani @ Blue Note.

Milano, Blue Note. 27.4.2010.


Rosario Giuliani ha presentato il suo nuovo disco, Lennies Pennies, al Blue Note di Milano. Il disco, il quartetto, le ispirazioni, il rapporto con i pianisti sono gli spunti dell’intervista realizzata al termine del concerto milanese.



Jazz Convention: Lennies Pennies, undicesimo lavoro della tua carriera, due parole su questo tuo ultimo album.


Rosario Giuliani: Si… (ci pensa un attimo)… undicesimo come leader, il quinto per la Dreyfus Jazz, questo è un disco che rappresenta un po’ gli ultimi due tre anni della mia vita e quindi, di conseguenza, attraverso gli standards ed attraverso le composizioni originali che ho scritto appositamente per questo album ho cercato di raccontare tutto quello che è stata l’esperienza vissuta in questi ultimi anni.



JC: Che comprende, quindi, gli omaggi che abbiamo ascoltato stasera…


RG: C’è sempre un legame tra i vari pezzi, per esempio il progetto di Zawinul era legato al repertorio del quintetto di Cannonball Adderley e, la stessa cosa, Lennie Tristano era legato al repertorio di Lee Konitz quindi, comunque, c’è sempre un legame tra un pianista ed un altista. C’è sempre una storia che lega la scelta dei brani.



JC: Tu, e la tua risposta lo ribadisce, hai sempre avuto un rapporto molto particolare e forte coi pianisti ed hai suonato coi grandi nomi italiani ed internazionali. Il fatto che nel tour di Lennies Pennies tu stia girando con pianisti diversi (Dado Moroni stasera, Roberto Tarenzi nella data romana) dipende dall’indisponibilità di Pierre De Betman o da una tua scelta di “sperimentare” il repertorio dell’album con varie voci? O, ancora, quella indisponibilità crea una rosa di utlriori occasioni di crescita e relazione artistica?


RG: Naturalmente il fatto è che Pierre non poteva seguire questo tour, ed io avrei voluto farlo con la stessa band dell’album. Però, visto e considerato che lui non poteva, io ho chiamato pianisti che potevano “stare dentro” questo progetto. E sono talmente dei grandi musicisti, talmente dei grandi strumentisti, che io non li considero, non posso considerarli, dei sostituti. Li reputo parte integrante della mia musica, in questo momento stanno condividendo con me il mio tour, quindi condividono la musica del disco ma, in realtà, stanno qui fondamentalmente per sperimentare cose nuove. Quindi, con loro, il tutto rende un suono ben preciso.



JC: Rraccontaci un po’ della tua “regola delle 3C” che utilizzi nell’insegnamento e nelle tue Master Class


RG: “Cuore”, “Coraggio” e “Convinzione”, questa è la storia delle 3C. “Cuore” rappresenta la passione, quindi l’amore per questo lavoro che noi facciamo, che è un lavoro importante perché è un lavoro che rappresenta un espressione che è importante. “Coraggio” c’è bisogno di coraggio perché ti dà la possibilità di salire su un palco ed assumerti dei rischi. Se uno non ha coraggio non si assume rischi e quindi non ha nemmeno la possibilità di toccare il cielo, è c’è la possibilità di toccare il cielo. E, quindi, c’è bisogno di tanto coraggio, coraggio per mettere mano su brani dove hanno messo mani, prima di te, dei grandi musicisti come Coltrane, come Bill Evans, come Cannonball Adderley, come Lee Konitz. E lì ci vuole davvero coraggio per rappresentare con il tuo suono, in quei brani che già sono stati eseguiti, e questa è la seconda C. La terza C è la convinzione, che quello che stai facendo è quello che davvero vuoi fare, che è il Jazz, che è la musica che stai suonando in quel momento, che ti rappresenta, che rappresenta il suono che tu hai dentro di te.



JC: Parlando di Jazz in generale tu sei parte di una generazione di mezzo tra le glorie del Capolinea e quei giovani a cui tu insegni. Come vedi, dal tuo punto visuale, il futuro del Jazz, in particolare del Jazz italiano.


RG: Io penso che il Jazz Italiano, oggi, è riuscito a prendersi una bella fetta del Jazz. Quello che prima rappresentava il Jazz era la torta Americana, noi eravamo la torta brutta, quella che rimaneva lì e nessuno si comprava, tutti andavano a comprarsi la bella torta americana. Fondalmentamente quello che è accaduto è che noi ci siamo presi una bella fetta di quella torta. Naturalmente il Jazz rimane americano, afroamericano, e su questo non ci piove, nessuno sui vuole prendere meriti che non abbiamo, ma oggi rappresentiamo una parte del Jazz, e, di conseguenza, il Jazz italiano sta crescendo, non avremo mai tutta la torta, ma ne siamo comunque una bella parte.



JC: Il tuo Jazz, le scelte che fai, gli omaggi, che fanno parte della tua storia e del tuo retroterra artistico sono nell’ambito di un Jazz abbastanza “puro”. Come vedi le contaminazioni nel Jazz, quali contaminazioni pensi possano far bene al Jazz e quali vedi come, diciamo, dannose?


RG: Vedi, il Jazz è soltanto una cosa secondo me, il Jazz è soltanto un linguaggio, un suono. Poi ci possono essere, come dici, delle contaminazioni. Non c’è un qualcosa che può far bene o può far male. Secondo me c’è un qualcosa che è Jazz ed un qualcosa che non può essere chiamato Jazz. Quando uno, attraverso la musica cerca di dare una forma, un suono a quello che è il jazz bisogna darlo con un grande rispetto di ciò che è questa musica. L’importante è non chiamare Jazz ciò che non lo è. Dopodiché le contaminazioni fanno bene a tutti, danno ispirazione, danno apertura, danno profondità e, soprattutto, immaginazione. Ed un musicista deve avere immaginazione.



JC: Sembravi visibilmente emozionato al termine del concerto, è stata una mia impressione o c’era davvero questo elemento di cuore stasera?


RG: Io, in realtà, mi emoziono sempre, dalla prima all’ultima nota. E’ un’emozione forte e spero sempre che questa mia emozione arrivi al pubblico nel miglior modo possibile. E poi suonare qui, al Blue Note, dove hanno suonato tanti grandi musicisti, venire qui e trovare un pubblico così caloroso e numeroso come stasera un po’ ti sorprende e ti da ancora più emozione. Che le persone stiano qui, paghino un biglietto, comprino il tuo Cd, ti ascoltino con tanta attenzione. Ti porta in un mondo che non conosci prima di salire sul palco, devi entrare in questa storia che è una specie di viaggio, a cui arrivi magari anche stanco, esausto però ci arrivi con la soddisfazione di esserci, fino alla fine.