Giuseppe Delre. Il desiderio, la voce e Cole Porter

Foto:









Giuseppe Delre. Il desiderio, la voce e Cole Porter.


Il jazz italiano ha una nuova voce: Giuseppe Delre. Nel panorama jazzistico italiano si parla con molta frequenza di musicisti che suonano uno strumento. Meno di chi ha invece come strumento soltanto la sua voce. Giuseppe Delre è un giovane cantante e compositore di jazz che possiede una voce calda e profonda come la sua terra, la Puglia. Ha dato prova delle sue capacità canore con un bel disco dedicato a Cole Porter. Ma chi è Delre? Cerchiamo di scoprirlo attraverso questa intervista in cui il cantante si racconta.



Jazz Convention: Come e quando è nata in te la passione per il canto jazz?


Giuseppe Delre: A casa mia la musica non è mai mancata. I miei genitori ne ascoltavano molta, specie quella proveniente d’oltre oceano: Burt Bacharach, Frank Sinatra, Lionel Hampton, Glenn Miller, Henry Mancini, Santo & Johnny, Tony Bennett, Nat King Cole per citarne alcuni e tanta musica classica. Canzoni come I’ll never fall in love again, My Way, Night and day, I’ve got you under my skin, Vine & lovers, tutt’oggi quando le ascolto o le canto mi riportano alla mia infanzia. Non è un caso infatti che dopo aver avuto una forte frequentazione nel mondo della musica classica sono approdato al Jazz e al mondo dei song writers, ovvero alla forma canzone. Ho dovuto fare un giro più largo che tuttavia mi ha arricchito notevolmente poiché la musica classica è davvero un patrimonio fondamentale per un musicista moderno e di jazz che vuole ricercare e andare avanti.



JC: Dove hai studiato canto jazz?


GD: Le prime esperienze musicali come cantante le ho avute in età adolescenziale quando, per caso, entrai a far parte di un gruppo musicale studentesco. A diciassette anni cominciai a prender lezioni di Canto. Finito il liceo entrai al Conservatorio di Monopoli dove ho conseguito i diplomi in Canto, Musica Vocale Da Camera e Musica Jazz. Pian piano il mio interesse si è spostato verso il jazz e mi ha portato ad allontanarmi dal mondo della lirica, in virtù di un altro fatto di nuovi colori armonici ed espressivi, dove la mia natura musicale, creativa ed interpretativa, hanno trovato il loro reale campo di esistenza. Ho frequentato diversi master e corsi in Italia ed all’estero. Poi l’incontro con Cinzia Spata mi ha dato un modo diverso di approcciarmi al canto jazz. In poche lezioni ho capito cose che ricercavo da tanto tempo e che tutt’oggi sono fonte di ricerca. E poi l’ascolto, tanto ascolto!



JC: Oltre a cantare, suoni anche uno strumento?


GD: Beh, suonare è una parola “grossa”. Diciamo che so metter le mani sul piano ma solo per fini compositivi e di arrangiamento. Certo so accompagnarmi ed accompagnare. Suono il piano in pubblico soprattutto per accompagnare i miei allievi ai saggi e per abituarli ad interagire con un altro strumento e non con una base fredda. All’età di sette anni, invogliato dai miei genitori, entrai in conservatorio per studiare flauto traverso, ma dopo tre anni la mia insegnante disse loro di farmi interrompere perché poco “portato” per la musica. All’età di diciassette anni la musica mi ha ripreso. A distanza di trent’anni ho ripreso anche il flauto e chissà che nel prossimo lavoro non debba suonare qualcosa…



JC: Com’è stato il tuo primo concerto e cosa hai provato?


GD: Il mio primo concerto è nato casualmente. Formammo un gruppo liceale e visto che ci stava già il batterista, il chitarrista ed il bassista a me non restava che fare il cantante. Suonavamo in Teatro, all’interno di una manifestazione organizzata da un’associazione di volontariato. La nostra performance fu un successone con bis annesso. Ricordo che eseguimmo Where the streets have no name degli U2, Someone somewhere in summertime dei Simple Minds e Stand by Me. Fu davvero bello! Eravamo tutti eccitatissimi, muniti di giubotto di pelle e bandana… altri tempi.



JC: Qual è il cantante di jazz in cui ti riconosci?


GD: Nessuno in particolare. Mi piacciono tantissimo Kurt Elling e Mark Murphy, ma anche altri come David Linx, Kevin Mahoghany, Andy Bey, Nancy Wilson. Ognuno di loro ha qualcosa che mi affascina e che mi stimola. Attualmente Kurt Elling è quello che sento più vicino sia vocalmente che “spiritualmente” per intenzioni espresse e ricerca. Lui non è un semplice cantante, ma anche uno che porta messaggi importanti di compositori e musicisti che hanno meno visibilità. Mi spiego: Elling spesso mette dei testi a brani di grandi compositori del jazz strumentale che chiaramente non hanno la visibilità che può avere un cantante. Credo molto in questo e nel mio piccolo mi piace fare lo stesso perché ci sono dei brani strumentali che hanno una grande cantabilità. La cura dei testi è fondamentale. La parola spesso viene scelta come aggregazione di significanti che già di per sè hanno un suono a prescindere dal significato.



JC: Come è nato il tuo primo disco e il rapporto con la casa discografica.


GD: Il mio primo lavoro da solista, ovvero Giuseppe Delre Sings Cole porter & the beat of a yearning desire, è la naturale maturazione di un processo di analisi e amore verso la musica di Porter, così carica di energia e passionale desiderio da vincere i segni del tempo. L’incontro con il jazz è nato con lui e in più mi ricorda gli ascolti fatti da bambino. Mi sembrava spontaneo iniziare con lui. Certo, solo dopo mi son reso conto che in verità è stata una scelta rischiosa che mi portava al confronto con gli innumerevoli songbook dedicati a lui da altisonanti nomi del jazz internazionale. Fortunatamente la veste che ho scelto di dare al progetto mi ha dato ragione, rinforzata anche dal fatto che ho tanto lavorato sul tema del “desiderio” presente in tutti i brani di Porter. Alla fine ho cercato di rivestire i suoi brani in funzione della tematica del “desiderio” leggendo attentamente i testi e giocando sul fattore ritmico con cambi di tempo ed impasti timbrici. Questo lavoro mi ha portato solo cose belle fra cui un premio conferitomi l’anno scorso come “Miglior Crooner 2009”. Parallelamente è venuto anche fuori un saggio – di prossima pubblicazione – inerente alla tematica del desiderio dove ho sviscerato l’argomento arricchendo il mio pensiero attraverso gli scritti di James Hilmann, Jacques Lacan e altri. Una volta finito il disco l’ho mandato solo a cinque etichette e la Abeat di Mario Caccia mi ha risposto subito. Anche altre due etichette mi avevano offerto delle possibilità, ma ho preferito la Abeat perchè le telefonate avute con Mario Caccia mi avevano fatto un’ottima impressione che il tempo non ha ancora smentito.



JC: Che cosa significa per te Cole Porter e come hai cominciato ad amarlo.


GD: Cole Porter per me rappresenta il songwriter più raffinato fra i suoi contemporanei con una cifra stilistica ben delineata e supportata da caratteristiche ricorrenti che lo rendono unico davvero. Inoltre Porter era autore sia della parte letteraria che musicale. Ne consegue che abbiamo davvero una adesione testo musica perfetta. E’ stato Gianni Lenoci che me lo ha fatto ri-scoprire, nel senso che durante l’adolescenza avevo abbandonato gli ascolti del periodo infantile, per cui è stata davvero una ri-scoperta quando sono entrato nella classe musicale di jazz.



JC: Hai un gruppo fisso?


GD: Per quanto concerne il progetto di Porter cerco, dove è possibile, di mantenere la sezione ritmica con cui ho registrato il disco. Per altri progetti suono con diversi musicisti. E’ più stimolante e nello stesso tempo anche più divertente. In generale lavoro solo su progetti che cerco di portare avanti e finalizzare.



JC: A quando il tuo prossimo disco?


GD: Entro fine giugno registro un disco in duo con un fisarmonicista che si chiama Vincenzo Abbracciante – segnalato ai media da Richard Galliano. E’ un progetto sulla canzone italiana degli anni sessanta, ma abbiamo scelto un repertorio poco battuto e molto intenso. L’intento è quello di voler rivestire alcuni fra i più rappresentativi motivi della canzone italiana alla ricerca di un nuovo vocal book lasciando grande spazio all’improvvisazione. A novembre invece il mio nuovo da solista che vedrà l’inclusione di diversi brani inediti e un paio di standard. La formazione sarà sempre ampia con una presenza di un ensanble d’archi. La tematica del disco è il tempo che passa. Una sorta di bilancio dei 40 anni di un curioso musicista che dall’opera è passato alla liederistica fino ad approdare al jazz.



JC: Le collaborazioni che ti sono rimaste impresse?…


GD: Beh, devo dire che molte sono state le collaborazioni che mi hanno stimolato e spronato. In verità non c’è nessuna che io ricordi più delle altre. Mi ritengo fortunato poiché spesso suono con musicisti che stimo moltissimo e con cui il confronto musicale diventa un motivo di crescita e condivisione. Anche la collaborazione con Mark Ribot con il quale ho condiviso il terzo disco dei tàngheri è stato un momento particolare poiché veniva fuori l’altro mio lato, ovvero, quello di improvvisatore out of style, dove fischi, sospiri, risate e recitato e soprattutto un uso non convenzionale della voce voleva essere innanzitutto una modalità comunicativa alternativa e sincera. Il prossimo futuro mi riserva la grande possibilità di poter collaborare con un pianista che io stimo tantissimo, ma per il momento non aggiungo nulla.



JC: Com’è la scena jazz pugliese in particolare e quella italiana in generale?


GD: Non per essere campanilisti ma la Puglia vanta davvero alcuni dei musicisti migliori in Italia e non solo. Inoltre stanno nascendo delle realtà che con mille sforzi promuovono il jazz al grande pubblico, che lo sta apprezzando. Certo la situazione generale della musica in Italia non è delle più rosee, ma oggi come non mai, in un momento di appiattimento culturale il ruolo del musicista è davvero fondamentale per poter essere ambasciatori di alcuni valori che nelle giovani generazioni stanno scomparendo. In primis l’acquisto dei dischi. Chi ama la musica deve comprare i dischi. Le istituzioni e i mezzi di comunicazione con in prima fila le radio dovrebbero smetterla di portare avanti solo la musica commerciale e proporre nei loro palinsesti anche il jazz e la musica classica. L’orecchio degli ascoltatori si sta impoverendo e questa è davvero un problema. La stessa televisione non propone nulla. Io credo moltissimo in questo e fra i banchi di scuola propongo ai miei alunni ascolti diversificati e consapevoli. Mi auguro che altri come me lo facciano. In Italia ci sono davvero degli ottimi musicisti che sono il nostro bigliettino da visita nel mondo. Artisti come Dado Moroni, e tanti altri sono motivo di vanto per tutti noi.