Bari in Jazz 2010. Il festival

Foto: Fabio Ciminiera









Bari in Jazz 2010. Il Festival.

Bari, 22/25.6.2010


In qualche maniera, l’edizione 2010 di Bari in Jazz risponde alla domanda con cui si apriva il ragionamento sulle attività collaterali di Young Jazz 2010. Innanzitutto con i temi posti dallo slogan ancestralemusicale, presente sul cartellone e sui fondali di palco, e dagli interventi sul rapporto tra comunicazione di massa, tempi moderni e jazz, richiesti da Roberto Ottaviano direttore artistico della rassegna a Maurizio Franco, Francesco Martinelli, Ugo Sbisà e Fabrizio Versienti.


Sulla scorta di due spunti all’apparenza distanti – ancestralità e nuovi media, appunto – il cartellone di Bari in Jazz 2010 si è mosso con intelligenza, riportando con precisione le tante anime del jazz di oggi. Una lettura effettuata a livelli differenti per la scelta di luoghi, accostamenti tra musicisti, ricerca di fili stilistici e, non ultimo, per il rapporto con il pubblico. Direzioni perseguite in maniera integrata tra loro, per dare spazio ai talenti e alle potenzialità del territorio, per trovare soluzioni equilibrate tra proposte e luoghi.


Partiamo dalla piazza, ultimo appuntamento durante le giornate del festival. Piazza Ferrarese ha ospitato il concerto finale di ogni serata: scelte popolari, dai suoni grossi e capaci di riempire lo spazio sonoro e di attrarre il pubblico. Funk Off, Bandadriatica, Nicola Conte Jazz Combo e Improbabilband sono stati i protagonisti di questa sezione.


Altra sezione all’interno del programma è stata quella costituita dagli appuntamenti nelle chiese, concerti programmati nel tardo pomeriggio per aprire la giornata del festival. In questo caso l’incontro è stato quello dell’ambiente – raccolto, suggestivo, a suo modo sonoro, ricco di spunti e suggerimenti per il musicista – con i diversi interpreti. Due concerti in solo, Giorgio Vendola e Pippo D’ambrosio, rispettivamente con contrabbasso e percussioni; Different Moods, duo formato da Vince Abbracciante e Beppe Delre, fisarmonica e voce; il Tristango, trio di fisarmoniche composto da Livio Minafra, Giorgio Albanese e Walter Bagnato.


All’interno di questi due momenti, nel corso di ogni giornata, il programma svolto all’interno del Teatro Piccinni, palco centrale dell’edizione 2010. Sul palco si sono avvicendati, nella prima serata, il quartetto di Salvatore Bonafede, Roberto Ottaviano, Piero Leveratto e Marcello Pellitteri e il progetto Aurora di Avishai Cohen, nella seconda serata Fabio Accardi Arcoiris e il quintetto di Ivan Lins, nella terza l’Organ Trio di Vito Di Modugno e il quartetto di Miroslav Vitous con Franco Ambrosetti e, infine, nell’ultima, Spajazzy e il nuovo lavoro su Malcolm X del Francesco Bearzatti Tinissima Quartet.


I temi suggeriti da Roberto Ottaviano nella comunicazione del festival, ancestralità e modernità, si sono tradotti nella scelta dei musicisti e dei progetti in uno sguardo attento all’incontro di avanguardie e melodia, da una parte, e nel recupero e nella sua successiva e radicale reinterpretazione delle tradizioni musicali del jazz e dei paesi del Mediterraneo. Sicuramente Avishai Cohen, Tinissima e il quartetto formato da Bonafede, Ottaviano, Leveratto e Pellitteri hanno evidenziato in maniera esemplare questo ragionamento – ma anche il percorso scelto da Vitous e la riformulazione “europea” e sfaccettata di Ivan Lins del proprio repertorio o la visione cinematografica di Accardi – hanno evidenziato come il jazz di oggi non possa non tornare nella pratica alla sua radice fondante, vale a dire la convergenza e la sintesi di influenze e tradizioni differenti. Lo spiega bene Avishai Cohen nell’intervista appena pubblicata su Jazz Convention, lo dimostra anche meglio nel concerto dove pianoforte e oud, chitarra elettrica, voci e percussioni si intrecciano in un caleidoscopio di lingue e ritmi, nutrito da tutte le anime musicali del Mediterraneo: il set di percussioni usato da Itamar Doari rappresenta, con il cajon, i tamburi e le percussioni mediorientali, una definizione quanto mai calzante del metodo di Cohen; altrettanto evidente il percorso nell’uso delle voci di Cohen e Karen Malka, nella visione a tratti cameristica della musica e nel trasporto delle improvvisazioni. Stessa attitudine mediterranea, in senso più o meno traslato, si è ritrovata anche nel solo di Pippo D’Amborsio e nell’esibizione della Bandadriatica.


L’altro filone, l’incontro di modernità e melodia, è stato ben rappresentato dal nuovo progetto del Tinissima Quartet, dedicato da Francesco Bearzatti a Malcolm X e tradotto musicalmente in una escursione sulle varie stagioni della black music, dal jazz degli anni trenta al funky e al rap. Bearzatti segue la pratica già utilizzata per l’omaggio a Tina Modotti: la miscela di emozione e intenzioni diretta al coinvolgimento e alla soddisfazione dei musicisti sul palco e del pubblico. Ne deriva un flusso musicale sempre vivace, dal grande apporto ritmico, fertile e vitalizzato allo stesso tempo dagli interventi dei solisti, estremamente vario e aperto a tante suggestioni per rimanere coerente grazie all’idea di suite, centrata sul nume tutelare del progetto. Come in Tinissima, anche per Malcolm X è presente il supporto visivo, con il progetto video realizzato da Antonio Vanni con le illustrazioni di Francesco Chiacchio, proiettate dietro i musicisti. In questo filone anche i concerti di Vitous – con la splendida sezione di solisti formata da Franco Ambrosetti e Bob Bonisolo – e del quartetto di Bonafede, Ottaviano, Leveratto e Pellitteri, dove la forza espressiva dei solisti si è miscelata con la lucida direzione musicale dell’incontro, condotto sulla convergenza degli stili, sul dialogo sempre brillante e paritario tra i quattro. Anche Arcoiris di Fabio Accardi – progetto per ensemble largo, guidato dal batterista – e il solo di Giorgio Vendola hanno puntato verso l’unione di melodia, composizione e attitudini stilistiche: se il primo ha giocato sull’incontro di sonorità delicate e composizioni morbide, con molti rimandi alle atmosfere delle colonne sonore, il secondo ha dipanato il suo solo tra improvvisazioni libere e composizioni ben articolate ed espanse grazie a un utilizzo intrigante del loop.


In un territorio intermedio si sono posti i concerti di Different moods, il trio di fisarmoniche di Tristango, l’Organ Trio di Vito Di Modugno, ma anche il Nicola Conte Jazz Combo, Ivan Lins e i Funk Off – da sottolineare il loro concerto sotto la pioggia con il pubblico, stoico, sotto il palco. Concerti, vale a dire, dove il gioco e il dialogo con la tradizione porta i musicisti verso una soluzione personale. Di volta in volta, i diversi territori musicali – il repertorio delle canzoni italiane, il mondo della fisarmonica e il tango, la stagione del soul jazz e il suono Blue Note, il vasto mondo della musica popular brasiliana e il funk – sono diventati punti di partenza per le esibizioni. Ivan Lins rivede il proprio songbook con un quintetto “europeo” e, soprattutto, capace di adattarsi grazie alla versatilità dei componenti ai suoni e alle intenzioni di ogni brano: la chiave del concerto, ricco di brani celebri e atmosfere accoglienti, prende corpo proprio nell’attitudine di tornare sulle “solite” composizioni con strumenti espressivi differenti e solidi, con musicisti giovani e dal diverso background, con un atteggiamento divertito e presente sul palco.


La presenza del festival in Piazza del Ferrarese, una piazza di grande dimensioni con un palco giustamente dimensionato, ha rappresentato il trait d’union con il pubblico più ampio. La rivisitazione mediterranea e bandistica della pizzica salentina espressa dalla Bandadriatica, il suono divertente e aggressivo dei Funk Off e le atmosfere eleganti dei brani di Nicola Conte. Con la piazza, e con le chiese, ritorna anche il discorso della scelta azzeccata dei luoghi e dei temi del festival: ancestralemusicale, lo slogan; comunicazione naturale e rapporto con il pubblico; lettura diversa dei vari ambienti, a seconda delle dimensioni e delle relazioni sonore e dei materiali proposti dalle formazioni. Un festival ampio – sedici concerti in quattro sere – deve, per forza di cose, offrire palchi e contesti diversi per poter leggere in modo adeguato le tante direzioni del jazz e della musica di improvvisazione di oggi.