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Cent’anni di Django.
Quest’anno ricorre il centesimo anniversario della nascita di Django Reinhardt. Lo spunto viene dai tanti concerti celebrativi di Django Reinhardt, presenti nelle rassegne e nei festival italiani, e, in particolare, da quello presentato nel corso della trentottesima edizione di Pescara. Si è trattato in questo caso di una serata doppia che ha visto coinvolti, prima, il Rosenberg Trio con la presenza speciale di Bireli Lagrene e, nella seconda parte, il quintetto del violinista Florin Niculescu impegnato con l’Orchestra Sinfonica di Pescara.
Django corre sempre il rischio di essere individuato con il grande virtuoso e di venire imprigionato in maniera schematica nel ruolo di progenitore del jazz manouche. Le due definizioni, vere senz’altro, non esauriscono il valore e la figura storica del chitarrista.
Per guardare alle tante anime di Django e rendergli un omaggio completo e molteplice, abbiamo ripreso e adattato alcune pagine da Le rotte della musica, il cui primo capitolo è interamente dedicato al chitarrista e comprende gli interventi di Simone Guiducci, Christian Escoudé, Carmelo Tartamella e Franco Cerri.
Django è forse il primo musicista europeo a suonare, con l’attitudine del jazzista, una musica che deriva in modo evidente dal retaggio gitano, compone i propri brani e improvvisa in maniera straordinaria per l’epoca e nonostante la mancanza di due dita della mano sinistra. «Molti indicano in Reinhardt il fondatore del jazz europeo, cioè di una forma di arte che mescola il linguaggio afroamericano con le radici europee. E’ una pietra miliare per tutti coloro che, negli ultimi venti o trenta anni, hanno rivendicato il diritto ad un jazz che esprima non una imitazione del modello statunitense, bensì una integrazione fra quello e la propria cultura musicale di base.» Sono le parole con cui Simone Guiducci presenta la figura di Django.
«Django è nato nel 1910, quando in Francia e in Europa non si parlava ancora per nulla del jazz.» Christian Escoudé è un musicista attento alla lezione e al percorso di Reinhardt e ha sviluppato in una serie di lavori originali il suo linguaggio di compositore e chitarrista: tratteggia in questo modo i primi passi del giovane Django. «Ha cominciato a suonare le musiche del circo nel suo ambiente familiare, con i suoi parenti. La sua è stata una vita itinerante e quindi, oltre che in famiglia, suonava anche nelle piazze e nei ritrovi, in occasione dei passaggi nelle varie città e nei villaggi. Ovviamente non era jazz: erano le canzoni trasmesse in modo orale dagli zingari, alle quali i gruppi affiancavano la musica popolare del tempo, quella che si suonava nelle brasseries, nelle sale da thé.
In Francia, negli anni Trenta, Django furoreggia con Stéphane Grappelli e da vita al Quintette du Hot Club de France: un richiamo, nel nome, ai gruppi di Louis Armstrong, ma anche il segno di un’appartenenza diversa. «Django Reinhardt cominciò ad interpretare un genere musicale nuovo, i cui primi echi cominciavano a giungere dal continente americano, il jazz, chiosa Carmelo Tartamella. Django ha disegnato tutta la geometria della chitarra moderna, la stessa che oggi viene utilizzata nei più svariati contesti.»
L’esperienza di Django è una sintesi dovuta a un talento e a una immaginazione fuori dell’ordinario. Negli anni, Reinhardt è in grado di acquisire e rielaborare ogni incontro: lo swing, il bebop, il suo leggendario viaggio in America. L’approccio dei suoi contemporanei e dei musicisti delle generazioni immediatamente successive mostra una pratica ancora legata, in modo ombelicale, alla lezione del jazz americano che, nel frattempo, si è evoluto e consolidato in maniera molto veloce con la fine dell’era delle big band. «In ogni esecuzione è presente la forte impronta della sua personalità e il suo legame con la cultura gitana.» afferma ancora Tartamella. «Come tutti i grandi protagonisti della musica era modernissimo nella sua epoca e la sua modernità non si affievolisce nel tempo, nel senso che ancora oggi la sua arte ci emoziona, ci stupisce e ci racconta sempre cose nuove, ci aiuta a gettare uno sguardo sul presente e sul futuro, in qualunque epoca essa venga contemplata.»
Il jazz sbarca in modo massiccio in Europa assieme ai militari americani arrivati con la seconda guerra mondiale. Gli europei cominciano a conoscere e a praticare in maniera diffusa il jazz, spesso unendosi alle formazioni degli statunitensi o, comunque, riproponendo i brani appresi dai solchi dei settantotto giri. E’ la ricerca di una base comune: gli europei imparano a districarsi tra le nuove espressioni. «Ho suonato con Django e Stéphane all’Astoria.» ricorda Franco Cerri. «Con loro c’erano altri due chitarristi e un contrabbassista, una formazione simile all’Hot Club de France. Ho suonato vicino a Django: faceva degli assoli incredibili, roba da bava alla bocca, poi ti guardava e ti diceva “Vas-y toi, maintenant”, “vai tu, ora”… e dove volevi andare? Era pazzesco, faceva delle cose inimmaginabili con due sole dita. Era un musicista straordinario e una persona gradevolissima.»
L’importanza di Django per il jazz europeo è stata fondamentale: è stato uno dei primi jazzisti europei e, sicuramente, uno tra i primi a suonare in una maniera del tutto personale. «Django è stato originale, prosegue Escoudé. Era talmente avanti rispetto al suo tempo che non ci sono spiegazioni razionali: fa parte di una schiera di geni, paragonabile solamente a personaggi come Van Gogh o Mozart, dei veri e propri fenomeni. Django, a mio avviso, non ha spiegazione, fa parte di un sistema di eventi irrazionali che si verificano in tutte le forme di espressione artistica. Queste sue capacità gli hanno permesso di andare negli Stati Uniti, di essere conosciuto e, cosa ancor più rara, di essere riconosciuto dai musicisti americani come un fenomeno. A quel tempo non c’erano chitarristi che potessero confrontarsi con lui o rivaleggiare, nemmeno in America, quanto a maturità e a tecnica, con le sue invenzioni. Lui e la sua musica sono stati veramente fenomeni universali.»
A sottolineare il discorso di Escoudé, vengono le parole di Simone Guiducci che, nel 2004, si è misurato con la musica di Reinhardt per realizzare Django’s Jungle, disco centrato in massima parte su brani scritti dal chitarrista gitano. «Ho cercato di privilegiare il Django compositore, una faccia meno celebrata, rispetto alla grande attenzione che il pubblico e gli stessi musicisti hanno posto nei confronti della fenomenale tecnica strumentale sviluppata da questo genio. Riprendere filologicamente il gipsyjazz di Django degli anni Trenta mi sembra un operazione molto riduttiva rispetto alla lezione di Django, anche se rispetto gli amanti di questo filone. Le opere degli ultimi anni della sua carriera propongono davvero grandi sorprese e le incisioni dei primi anni Cinquanta sono incredibilmente avanti, tanto che bisogna attendere un personaggio come Wes Montgomery, dopo parecchi anni, per poterlo paragonare con la modernità di Django, con i suoi metodi e con le soluzioni usate sulla chitarra.»
La sua capacità di sintetizzare linguaggi si è dimostrata straordinaria: suonava la chitarra manouche ma anche, e senza problemi, il bebop, il jazz e lo swing. La lezione di Reinhardt è decisamente fuori dal comune anche in questo senso. «Non esiste nessun altro musicista. a parte Django, che abbia attraversato gli stili in maniera tanto personale, prosegue Guiducci. Prima ha assorbito la lezione di Armstrong e, una volta raggiunta una sintesi personale che aveva già in nuce alcuni elementi del bop, ha successivamente affrontato il linguaggio di Parker e Gillespie, divenendo una voce preminente anche nello stile bebop.»
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L’importanza della sua esperienza sulle tecniche applicate alla chitarra è stata fondamentale. «Un influsso enorme, conclude Guiducci. Basta pensare che la tecnica di Jim Hall, il padre putativo di tutti i maggiori chitarristi contemporanei come, ad esempio, Pat Metheny, John Scofield, Bill Frisell è fondata come presupposto sull’utilizzo delle dita in senso longitudinale sulle corde, anziché trasversale. Particolarmente, come dice Jim Hall, sull’uso esclusivo di indice e medio. Questo deriva direttamente dai concetti elaborati da Django per sopperire al suo handicap nell’uso di anulare e mignolo, la cui efficienza era stata compromessa all’età di diciotto anni dall’incendio della roulotte dove dormiva. Parlare di quante dita usare per fraseggiare equivale a parlare del fondamento della concezione improvvisativa. Tutti i chitarristi che ho nominato prima, ma anche moltissimi altri che a loro si sono ispirati, hanno questa tecnica fra i presupposti del loro stile.»