Foto: Andrea Buccella
Valamar Jazz Festival 2010
Porec, Croazia – 9/11.7.2010
Situata sulla costa occidentale dell’Istria, a circa 70 km da Koper/Capodistria, Porec (Parenzo) è una delle località turistiche più frequentate della Croazia. Il suo grazioso centro abitato ha mantenuto intatto nel corso dei secoli il suo fascino, ma quella che a mezzogiorno appare come una cittadina tranquilla, alla sera si riempie di gente che percorre i suoi vicoli a passeggio e affolla ristoranti e locali. Arte e kitsch, antico e moderno, cultura e frivolezza qui si mescolano armoniosamente: per questo Porec si presta perfettamente ad ospitare un festival estivo.
Nato dall’entusiasmo e dalla passione di Tamara Obrovac, compositrice, cantante e flautista tra le più versatili sulla scena musicale croata, il Valamar Jazz Festival dimostra – alla sua prima edizione – di avere le carte in regola per diventare un appuntamento fisso sulle sponde dell’Adriatico e potersi ritagliare un posto d’eccezione nell’olimpo dei festival jazz estivi. La sua forza sta infatti nella capacità di mediare tra l’esigenza di avere nomi di richiamo in grado di dare un certo appeal al festival, la ricerca di contenuti di qualità e la voglia di osare con la sperimentazione e la contaminazione di generi.
La suggestiva cornice dell’isola si Sveti Nikola, raggiungibile da Porec con un breve viaggio in traghetto, ha ospitato gli eventi principali (ogni sera due formazioni); senza dubbio, assistere ai concerti con un panorama emozionante come quello della cittadina e delle sue mille luci sullo sfondo ha contribuito ad aggiungere un tocco di magia in più alla manifestazione. E’ toccato dunque a Claudia Acuña e alla sua band l’onore di aprire il festival. Il set della cantante cilena, basato in larga parte su En Este Momento (debutto discografico per l’etichetta di Brandford Marsalis), alternava momenti di intenso vitalismo (Gracia a la Vida) a ripiegamenti intimistici (El Derecho de Vivir en Paz del conterraneo Victor Jara). La sua musica riflette il proprio vissuto e la realtà dell’America Centrale e del Sud tanto nei testi quanto nelle influenze musicali, sublimandoli in un raffinato pop latino venato di jazz che ha il suo punto di forza nella carica interpretativa e che ha trovato forse i suoi momenti migliori nel duetto con il proprio chitarrista Juan “Juancho” Herrera in Vuelvo Al Sur (omaggio all’arte di Piazzolla) e El Cigarrito, occasione propizia per mostrare le qualità di tutti i musicisti (Ben Zwerin al basso elettrico e Edgardo Serka alla batteria).
Rapido cambio del palco ed ecco il turno del Flamenco Project di Dave Holland e Pepe Habichuela. La consuetudine con le atmosfere del quintetto e della big band rende del tutto insolito (ed elettrizzante) vedere il grande bassista inglese alle prese con i palos, ma il suo approccio alla materia è quello di chi è cresciuto a pane e flamenco e conosce tutti i segreti di bulerias, fandangos e rumbas. D’altra parte Pepe Habichuela (al secolo José Antonio Carmona), proveniente una grande dinastia di musicisti dediti al flamenco, appartiene alla stessa generazione dei Paco De Lucia, dei Camaròn de la Isla, degli Enrique Morente, e conosce molto bene l’idioma del jazz, avendo già collaborato con Don Cherry. L’incontro tra i due risale al 2006 e ha visto nascere subito un’intesa formidabile che ha infine portato all’incisione di Hands. Ponte Quebrao, Hands, Camaron (dedicata al grande cantante di flamenco) sono l’arena sulla quale si ‘sfidano’ questi due matador: il ‘duello’ sprigiona un’enorme energia, alimentata dagli altri membri della famiglia Carmona (il figlio Josemi alla chitarra, Juan e Bandolero alle percussioni). Anche uno dei classici di Holland, The Whirling Dervish, sembra nato per l’arrangiamento in stile flamenco scritto per l’occasione. Le linee di basso sono vibranti e poderose come sempre ma questa volta si arricchiscono di un colore diverso e ogni assolo dii Holland o Habichuela o viene costantemente punteggiato dagli “olè” dei musicisti.
Non c’è festival jazz che si rispetti senza il suo piano trio e a inaugurare questa tradizione al Valamar arriva quello di Edward Simon con Joe Martin al contrabbasso e Adam Cruz alla batteria. Scelta azzeccatissima visto il feeling che il pianista venezuelano riesce subito ad instaurare con il pubblico, irretendolo con la propria espressività e comunicativa. Simon tocca alcune tappe della sua produzione, partendo dalla fine (l’iridescente Poesia, brano eponimo dall’ultimo album con Patitucci e Blade) e passando per la sublime Abiding Unicity, introdotta da Martin con l’archetto. Con Fiestas e Infinite One (tratte entrambe da Simplicitas) il trio strappa applausi convinti: la spontaneità e la naturalezza con cui fluiscono le note e l’interplay con i compagni mascherano sapientemente la complessità ritmica e delle idee armoniche del leader. Da antologia anche Chovendo na Roseira, classico di Jobim – un vamp di basso che scandisce quasi tutta la durata del brano fornendo al pianoforte un pedale sul quale improvvisare liberamente col suo caldissimo spanish tinge – ed il gran finale di Woody’n’You, uno degli standard più amati da Simon, rivisitato con grande rispetto ed originalità.
Raggiante e in splendida forma, Dianne Reeves non delude le attese. La cantante presenta un repertorio vario, alternando standards all’esecuzione di brani tratti dai suoi dischi più o meno recenti, accompagnata dai fedeli Peter Martin al pianoforte e Romero Lubambo alla chitarra, da Reginald Veal al basso e Terreon Gully alla batteria, protagonisti dell’apertura del concerto, completamente strumentale, durante la quale possono dare libero sfogo al proprio talento. Seduta su uno sgabello, la Reeves incanta il pubblico con performance vocali di gran qualità in cui addomestica la potenza della sua voce con scat e vocalese. Scavando a fondo con sensibilità tra le sfumature delle ballad, concede ampio spazio alle suggestioni, grazie anche ad esecuzioni come quella di I’m in Love Again, in trio piano-voce-chitarra con Martin e Lubambo, estremamente accattivante nelle sue performance. Tuttavia non tarda ad affiorare anche una sana matrice blues che unita ad una grande capacità di improvvisare fornisce lo spunto per un divertente ed estemporaneo blues incentrato sul rocambolesco viaggio della band fino a Porec. Generosa e disponibile, la Reeves non si risparmia e termina l’esibizione tra gli applausi scroscianti del pubblico con Black or White, commosso tributo a Michael Jackson.
La fama di giovane talento lo precede fin qui, sulle coste della Croazia. Maurice Brown ha suonato con i grandi della vecchia guardia – gente del calibro di Clark Terry e Curtis Fuller, Johnny Griffin e Ellis Marsalis – ma anche con musicisti della nuova generazione, guadagnando il rispetto e l’ammirazione di colleghi come Roy Hargrove e Lonnie Plaxico. Ed è proprio a questi due artisti che corre immediatamente il pensiero ascoltando le prime note del set del trombettista di Chicago. I punti di contatto con il loro neo bop e soul jazz sono davvero tanti: temi semplici, orecchiabili e ammiccanti, senso del ritmo e groove a pacchi. La sua voce strumentale è opalescente e ricorda quella del già citato Hargrove, così come il suo staccato. La prima parte del set riproduce fedelmente The Cycle of Love (il suo secondo album, pubblicato di recente) esattamente nello stesso ordine d’incisione dei brani, mentre la seconda parte offre una versione particolarmente struggente di Misty per poi fare un salto nel passato fino al primo disco, Hip to Bop, e a It’s a New Day, piena di “good vibrations”.
Gran finale di festival con Abraham Inc., incredibile consorzio partorito dalle geniali menti di David Krakauer, Fred Wesley e Socalled. La nutrita compagine – completavano la line-up il rapper Brian “Raydar” Ellis, Alex Coke (tenore) e Igmar Thomas (tromba), Jerome Harris al basso e Allen Watsky alla chitarra – suona un una musica ibrida nata soprattutto per far ballare la gente, nella miglior tradizione della musica per feste e matrimoni ebraica e del contagioso groove funky: loops e melodie klezmer, rap e chitarre “sporche” (Baleboste), classici della tradizione ebraica (The H Tune – Hava Nagila) e del repertorio di Mickey Katz (Trombonik), rivisitati in chiave funk, o – viceversa – una hit (Breakin’ Bread) di Fred Wesley (trombonista con importanti trascorsi nell’orchestra di James Brown e dei Funkadelic di George Clinton) attraversata dal graffiante clarinetto di Krakauer e dall’irriverente sfrontatezza di Socalled. Personalità davvero singolare, quella dell’ecclettico ‘folletto’ canadese: sboccato provocatore e guastafeste ma anche strumentista polivalente che si trova a proprio agio tra beat, campionamenti e incursioni nei più svariati genere musicali e all’occorrenza si presta a fare il rapper. Ironia e sarcasmo tutti yiddish pervadono l’intero set, facendo scandire Tweet Tweet (titolo del primo esplosivo cd della band) con un rap sperticato sopra un incrocio di riff soul e temi klezmer abbozzati. Alla fine l’invito di Wesley è chiarissimo e arriva in puro stile anni ’70: We’re Gonna Have a Half Party. Il pubblico non se lo lascia ripetere due volte e trasforma la zona adiacente al palco in una festosa pista da ballo.