Foto: Andrea Buccella
A Roma luglio suona davvero bene.
Come ormai piacevole consuetudine, il mese romano di luglio ha regalato delle serate che nulla hanno da invidiare ai maggiori festival in giro per l’Europa. Per gli appassionati di jazz l’appuntamento centrale è stato come da tradizione all’Auditorium Parco della Musica per il ciclo di serate Luglio suona bene, che anche quest’anno ha annoverato un cartellone di tutto rispetto con una forte prevalenza jazz.
Ad aprire le danze è toccato al Trip Hop dell’inglese Tricky sabato 26 giugno. La serata in realtà non è iniziata sotto i migliori auspici con un acquazzone che ha imperversato pochi minuti prima dell’inizio previsto, con conseguente ritardo di un’ora e un soundcheck improvvisato. Ciò nonostante, il musicista e produttore ha dato vita ad uno dei concerti più coinvolgenti in assoluto in una interazione continua con il pubblico. A capo di un gruppo con una forte valenza rock ed una vocalist che si è fatta valere, ha intervallato i brani del suo ultimo lavoro Knowle West Boy con quelli dei suoi primi album di metà anni novanta in una continuità artistica sorprendente, a testimonianza del grande carattere innovativo che ha da sempre segnato la sua carriera già da i primi passi.
Il primo luglio ha fatto tappa il primo vero appuntamento jazzistico con il tour di Herbie Hancock “The Imagine Project”, celebrativo dei suoi settanta anni. Come suo solito il pianista afroamericano non ha tradito le aspettative presentandosi con un variegato quintetto senza fiati di tutto valore ed una ritmica dalle sonorità pop rock formata dal giovane talento della bassista australiana Tal Wilkenfeld e dalla superstar della batteria Vinnie Colaiuta. Il repertorio era incentrato prevalentemente sui brani dell’ultimo album, caratterizzato da una ricca presenza di ospiti, ognuno dei quali proveniente da luoghi e culture lontane in una sorta di globalizzazione musicale. Ecco così che si passa con estrema eleganza e raffinatezza da Imagine di Lennon a The Times They Are a Changin’ di Dylan dedicata immancabilmente ad Obama, dai ritmi giamaicani di Exodus a quelli più blues del Mali dei Tinariwen passando per quelli folk di Joni Mitchell. Ma si festeggiano anche i settant’anni di Hancock e dunque non potevano mancare, anche se appena accennate con piccoli fraseggi, le varie Watermeloman, Maiden Voyage e una ‘Round Midnight diventata presto una Cantaloupe Island dai ritmi funky. Hancock si conferma ancora una volta un’artista di primissimo livello anche in un contesto più facile e popolare, ma reso inimitabile dal gusto e dalla classe che da sempre l’hanno contraddistinto e dalla scelta felice dei suoi compagni di palco.
Domenica 4 è stato il giorno dell’incontro tra i tasti di Chick Corea e di Stefano Bollani, divenuto ormai una star riconosciuta anche al di fuori dell’ambito più strettamente jazzistico. Anche per questo motivo non sorprende più di tanto il tutto esaurito che i due hanno fatto registrare e si avverte, come maggiore stupore, anche la sensazione che gli occhi del pubblico siano puntati tutti sul pianista italiano. I due offrono uno spettacolo piacevolissimo incentrato prevedibilmente su un repertorio fatto di standard in lunghi medley in cui i due possono muoversi a proprio piacimento e in tutta libertà, trovando nell’altro il perfetto interlocutore. Bollani fa il padrone di casa con quell’ironia che l’ha da sempre accompagnato e anche Corea si presta al gioco divertito, dando via via vita a dei gustosi siparietti e brillanti scambi musicali. I brani ripercorrono tutta le fasi della musica afroamericana in omaggi che vanno da Coltrane a Bill Evans passando per Ellignton e la sua Take The A Train e il Monk di Bye Ya, ripreso anche nel secondo bis finale con la sua celeberrima Blue Monk che segue la splendida Spain di Corea. Bollani è sempre in primo piano rivelandosi fin da subito più esuberante del suo collega sia da un punto di vista musicale che scenico, improvvisandosi nel finale anche cantante in una parodia che scimmiotta Chet Baker. Ma è Chick Corea a far sentire le cose migliori in uno stile sicuramente essenziale ma più incisivo in un concerto dove sono comunque pochi i momenti di vero dialogo e più quelli in cui i due mettono in mostra le loro formidabili doti tecniche.
Domenica 18 è stata la volta dell’evento più atteso con un sold out già annunciato dal mese di aprile, ossia il ritorno nella capitale del trio di Keith Jarrett a distanza di diverso tempo. Per l’occasione è stata concessa la grande sala Sala Cecilia anche per venire incontro alle richieste del pianista che ha potuto così godere della giusta temperatura e di un rispettoso silenzio, anche se di contro l’acustica non è apparsa poi così ineccepibile. Anche se da anni ormai il trio si limita alla rilettura di standard, l’attesa era sempre alta, nella speranza che qualcosa di speciale possa accadere, magari di essere testimoni di una serata particolarmente ispirata, confidando anche nella presenza in sala del fondatore della storica etichetta Ecm Manfred Eicher. Purtroppo così non è stato. Jarrett suona divinamente, ma si ha la sensazione che questa sua maniacale ricerca verso la perfezione gli faccia perdere l’anima e quella estemporaneità che rendono il tutto prevedibile, facendo di Jarrett un ottimo esecutore sì, ma lontano da quell’artista unico e travolgente degli anni ’70, risultando ora invece freddo e distaccato. Il concerto è diviso in due parti intervallate da una pausa di venti minuti tra le ripetute e ormai stucchevoli raccomandazioni a non far rumore né tantomeno fotografie. Entrambe composte da un repertorio fatto di standard cari al trio, nella prima Jarrett lascia poco spazio ai suoi fedeli compagni, con DeJohnette che si limita a colorare con i piatti e Peacock che segue il leader giudizioso. La seconda parte invece risulta più facile e scorrevole, finalmente con qualche dialogo tra i tre e un DeJohnette più percussivo e presente. Alle ballad i tre alternano brani che omaggiano il Bebop di Parker con la sua Billie’s Bounce, il Davis di Four o i ritmi argentini sul finire della prima parte. La parte migliore Jarrett la riserva sul finire con i due bis acclamati a gran voce e una strepitosa versione di God Bless The Child prima dei ripetuti inchini di ringraziamento, unico momento in cui il pianista americano si rivolge verso una rispettosa platea comunque in visibilio.
Auditorium a parte, dove hanno fatto tappa anche il Pat Methey Group, Paolo Fresu con Trilok Gurtu e Omar Sosa, Norah Jones e Erykah Badu, sempre nel mese di luglio si sono tenuti altri interessanti concerti alla Casa del Jazz, con le serate Tom Harrell e Eddie Gomez su tutte e a Villa Ada con la Hypertext O’rchestra di Luigi Cinque con la presenza di Trovesi e Salis, il funk sempre valido di Maceo Parker, il blues dello storico Dr. John e l’afrobeat di Jimi Tenor e Kabu Kabu per un’estate romana davvero da incorniciare.