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Slideshow. Roberto Magris.
Jazz Convention: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?
Roberto Magris: Ho iniziato a mettere le mani sul pianoforte da molto piccolo e non ho un primo ricordo in particolare. Poi ho suonato musica classica fino ai 16-17 anni quando ho incontrato il jazz. Eravamo a metà degli anni ’70 ed io ascoltavo i Santana, i Jethro Tull, gli Uriah Heep e cose del genere. Ricordo bene, però, quando ho acquistato il mio primo disco di jazz. Si trattava di un disco di Oscar Peterson dal titolo The way I really play che avevo adocchiato di sfuggita e mi aveva incuriosito, senza sapere esattamente che musica contenesse. Lo comperai a scatola chiusa e, una volta ascoltato, la musica mi colpì moltissimo ma non riuscivo a capire “come funzionasse”. Lo ascoltai ininterrottamente per giorni e poi ritornai nel medesimo negozio chiedendo se mi potevano consigliare un secondo disco di jazz. Mi ricordo ancora le esatte parole del padrone del negozio, un vecchio appassionato di jazz, che da dietro il banco mi chiese: “conosci il mondo di Ornette Coleman?” Risposi di no, ovviamente. E così me ne tornai a casa con New York is Now! di Ornette Coleman. Mi piacque pure molto, ma mi ritrovai subito con un ulteriore problema: com’era possibile che Oscar Peterson e Ornette Coleman fossero entrambi musicisti di jazz se facevano una musica tra loro così diversa? Ma cosa diavolo era ‘sto jazz? E da lì, mi sono rovinato…
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista jazz?
RM: Oltre a quello che ti ho detto prima, la curiosità, quasi la sfida, di capire come questa musica funzionasse e l’irresistibile fascino del ritmo… dello swing… L’incontro con il jazz mi ha fatto subito sembrare la classica una musica “morta”, soprattutto perchè priva di ritmo. È vero, anche i Santana avevano ritmo, ma il jazz era tutta un’altra cosa. E poi quegli accordi strani e mai sentiti prima… un mondo da esplorare.
JC: Chi sono i tuoi maestri nel jazz?
RM: Charlie Parker, John Coltrane, Charles Mingus, Ornette Coleman, Duke Ellington… per i pianisti la lista è più lunga… in ordine sparso… McCoy Tyner, Andrew Hill, Thelonious Monk, Wynton Kelly, Ahmad Jamal, Herbie Hancock, Bud Powell, Teddy Wilson, Earl Hines, Oscar Peterson, Bill Evans, Denny Zeitlin, Paul Bley, Steve Kuhn, Don Pullen, Mal Waldron, Randy Weston, Tommy Flanagan, Red Garland, Les McCann, Kenny Drew, Bobby Timmons, Barry Harris, Jaki Byard, Phineas Newborn, Elmo Hope, Herbie Nichols, Hampton Hawes, Sonny Clark… e poi ci sono dei singoli musicisti il cui lavoro amo in modo particolare… Lee Morgan, Rahsaan Roland Kirk, Andrew Hill, Horace Silver… e naturalmente, come compositore, Billy Strayhorn.
JC: Quale resta per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
RM: Sono i momenti legati alle mie collaborazioni negli USA con Art Davis, Tootie Heath, Idris Muhammad ed in Europa con Herb Geller. In concerti dal vivo ed in studio di registrazione. Ricordo con grande soddisfazione le tre serate del mio quartetto al Catalina Jazz Club di Hollywood, assieme al mio caro amico Tony Lakatos al sassofono ed Art Davis al contrabbasso.
JC: Tra i dischi che hai registrato, quale ami di più?
RM: Oggi come oggi direi Mating Call, pubblicato dalla J-Mood di Kansas City, per la mia amicizia con il produttore Paul Collins ed il lavoro a monte con un “team” di musicisti eccezionali come Paul Carr, Michael O’Neil, Elisa Pruett e Idris Muhammad. Ma presto cambierò idea e ti dirò Morgan Rewind, il mio prossimo nuovo CD che uscirà a gennaio 2011 sempre per la J-Mood, dedicato alla musica di Lee Morgan. Lo so che ultimamente Morgan è diventato un po’ di moda, ma la mia è una passione che risale agli anni ’70 e le sue incisioni, ne ho ha casa oltre una ventina, non hanno mai smesso di appassionarmi e coinvolgermi fino ad oggi. Ho registrato Morgan Rewind a Kansas City due anni fa, assieme a Brandon Lee, Logan Richardson, Elisa Pruett e Albert Tootie Heath, e trattandosi di un disco che avevo sempre sognato di fare, credo che salirà subito in vetta tra quelli a cui sono particolarmente affezionato.
JC: Come definiresti il jazz?
RM: Ritmo, melodia ed improvvisazione. Come parte di un percorso artistico sviluppatosi parallelamente alla società industrializzata moderna. Anzi, il jazz è proprio la musica della città moderna dove le vite, importanti e non, di tutti gli uomini e di tutte le donne, di tutte le razze, scorrono freneticamente ogni giorno, quasi improvvisando, alla ricerca, ognuno, del proprio destino. È forse questo il senso del “chours”?
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
RM: Innanzitutto il dubbio, inteso come “potrei scegliere di andare a destra oppure a sinistra oppure in alto oppure in basso”, con assoluta libertà di arbitrio, che porta alla molteplicità delle soluzioni e dei risultati. Mai finali. Estemporaneità. Illusione. A volte senso ipnotico e ritualità. Sintonia e contrasti. Tensione e rilassamento. Comunicazione emozionale a vari livelli. Condivisione. Sintesi. Rischio. Passione. Rispetto.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
RM: Sì, se il riferimento è alla vicenda musicale nata ai tempi di Louis Armstrong e, passando per Ellington, Parker, Coltrane ed Ornette, giunta fino ai giorni nostri. Se ci si riferisce invece ad un fisarmonicista bulgaro che improvvisa su delle melodie popolari in compagnia di un violinista armeno, il jazz non c’entra nulla. Non si tratta di essere “tradizionalista” ma semplicemente di ribadire un percorso artistico-musicale, quello della musica jazz, che, in onestà intellettuale, non può essere equivocabile. Tantomeno oggi dove in nome della globalizzazione tutto è uguale ed omologato.
JC: Istintivamente, cos’è per te il jazz?
RM: Istintivamente è proprio quella musica lì, quella che c’è nei dischi, nei video e nei libri, e che c’è ancora oggi, nella sua forma di oggi, che contiene un bel po’ del ieri, ma anche i germi del domani.
JC: Come vedi, in generale, il presente della musica jazz?
RM: Nei seguenti quattro modi: in prima battuta, è ormai già avviato il processo di “classicizzazione”, che coinvolge una grande fetta dell’attuale scena jazz, anche se ciò non è necessariamente negativo; in sencondo luogo, c’è poi il jazz ben vivo di oggi, che discende dalla vicenda nata in America cent’anni fa e fiorita poii in ogni angolo del mondo, con una sua estetica legata, in modo consequenziale e progressivo, ai grandi maestri del passato e, anche, del presente. La vicenda non è morta nè si è arenata nè è stato ancora detto tutto quello che c’era da dire, anzi. È la società di riferimento che è cambiata, secondo me, in senso involutivo. Purtroppo il pubblico specialistico, con cultura e passione jazzistica, oggi è in diminuzione. Questi sono i tempi dell’immediato consumo, dell’Ipod e dell’Mp3. L’Hi-Fi è preistoria anche se oggi i bassi del contrabbasso non li sente nessuno. La tradizione rappresenta sempre più un peso da gettare e la qualità spesso non viene compresa. C’è poi quello che jazz non è ma ormai lo è diventato per “estensione culturale”, basandosi su un concetto di improvvisazione, sviluppo, variazione in senso lato. Attinge da generi musicali diversi (folk, classica, pop, rock, hip-hop, latin-salsa ecc.) e anche dal jazz… non praticato però, ma estrapolato in qualche sua parte che risulta funzionale all’insieme, come in un quadro di Andy Warhol. Questo modo di “fare jazz” risulta, secondo me, sostanzialmente estraneo all’estetica ed alla tradizione del jazz di cui sopra, seppur parimenti ricco di contenuti artistici. Penso che questa tendenza musicale sia destinata ad imporsi in futuro per la sua facilità a venir apprezzata da quella parte sempre più crescente di pubblico che apprezza un po’ di tutto e niente in particolare, non conosce l’estetica del jazz, e viene soprattutto impressionato dall’esplicito virtuosismo o dalla stranezza ed inusualità delle proposte. C’è infine l’aspetto del jazz come “happening”, come performance, anche multimediale con l’innesto di tecnologie e aspetti visivi. Musica come spettacolo da vedere oltrechè sentire. Molto spesso si tratta di un altro uso improprio della parola “jazz”, anche se concordo, in linea generale, che l’arte debba espandersi e non venir rinchiusa in gabbie ideologiche, jazz compreso. Non tiro giudizi di positività o negatività. Il mondo e la società di oggi sono quelli che sono e la musica ne è specchio fedele. Jazz compreso. Tutto sommato, non va male, anzi. Non bisogna però dimenticare che per avere un pubblico competente, anche in futuro, bisogna prima educarlo. E mi rivolgo soprattutto ad alcuni miei colleghi che si comportano come pescatori con la rete a strascico in un area che dovrebbe essere protetta…
JC: Cosa stai facendo ora a livello musicale?
RM: Mi sto godendo l’uscita di due album quest’anno, prima Current Views (Soulnote/CAM) nei primi mesi del 2010 ed ora Mating Call (JMood). Tra una ventina di giorni sarò a Los Angeles per concerti, assieme alla cantante Madeleine Davis, e poi a novembre sarò a Kansas City, per registrare ancora per la JMood quel che l’amico e produttore Paul Collins ha in testai. Sì, negli ultimi anni suono spesso negli USA e con grande soddisfazione. Del resto, visto il livello dei musicisti trovo lì e dimenticando il cibo, spero proprio di continuare così per un bel pezzo.