Open World Jazz Festival 2010

Foto: Paolo Dezzutti





Open World Jazz Festival 2010

Ivrea – 11/13.11.2010


Credo sia andata così. Da una parte l’Ivrea Jazz Club e una nona edizione dell’Open World Jazz Festival da organizzare proprio nella Settimana della Cultura d’Impresa, a cinquant’anni dalla morte di quella che forse è la personalità più importante di questo territorio, ossia Adriano Olivetti. Dall’altra l’urgenza di cercare un comune denominatore tra la musica jazz e il ricordo dell’homo faber eporediese come figura collante tra tutte le espressioni artistiche e culturali, a creare un clima favorevole soprattutto ai fermenti musicali… Ecco, trovato: “Storie di jazz nella città dell’Uomo”.


Questa la prima storia: giovedì 11 novembre c’è un Teatro Giacosa al completo, dove le maschere cercano di collocare – persino dietro le colonne del parterre – le molte persone giunte ad applaudire Odwalla sapendo che ogni concerto è un’occasione nuova di ascolto, un momento di festa come solo può esserlo un’occasione di suonare insieme – prima di tornare ognuno al proprio paese e ai propri progetti: il gigante Famodou Don Moye si diverte spostandosi dalle percussioni alla batteria – dove parte leggerissimo fino a culminare in un assolo finale divertito ed esplosivo; U.T. Ghandi è una presenza perfettamente amalgamata nel contesto del gruppo, dove il tema diventa una vibrazione e riesce ad esprimere e a concretizzare l’immateriale; la kora di Papis Davò diventa distonica e sensuale nell’accompagnare uno dei danzatori (gli splendenti Axiza Daxo dal Benin coordinati da Gerard Diby e soprattutto la splendida Sellou Sordet) a improvvisare un passo di costumi sfilati lentamente e gettati sul palco. Il pubblico a bocca aperta e mani a tempo, aspettando l’attimo dopo. Con Odwalla tutto diviene possibile.


C’è qualcosa di costantemente inaspettato e perfetto nel proprio sviluppo: il battito pulsante, la danza, i colori e le luci giocate in un crescendo davvero suggestivo dai tecnici di Play arrivati appositamente da Bricherasio e persino la levità dei costumi di musicisti e danzatori che si fa suono; un carillon lontano dalla musica a un tempo sinistra e cristallina, il rumore dell’acqua che Doussu Tourrè fa cadere dalla calebasse, il pubblico che resta sospeso in un silenzio stupefatto di cui si avverte un tono di vibrazione.


Mi si chiede di ringraziare il Comune di Ivrea, ma purtroppo nessuna Autorità pervenuta nel parterre. Il collega Guido Michelone, parlando un giorno di Massimo Barbiero come fautore del gruppo, sosteneva con molte ragioni che mai come in questo caso sia indicato il detto “Nemo Propheta in Patria”. È un vero peccato, per le istituzioni, sapere di non capire.


La seconda storia parla di dualismi e di confronti. Qualcosa di solidale, però, o meglio di sodale dove due amici veri, che durante le prove si scambiano reciproci sorrisi e complimenti, si incontrano e decidono di suonare insieme vestendo la propria purezza formale – e la formazione classica – di sperimentazione e suoni ventosi.


Il chitarrista Ferenc Snétberger e il trombettista Markus Stockhausen (dal cognome non a caso evocativo, essendo proprio il figlio di Karlheinz) creano venerdì 12 novembre nella bella sala Pinchia di Banchette (dalla perfetta acustica) un momento assolutamente emozionante di musica, dove anche accordare gli strumenti diventa una melodia e dove non esistono copioni convenzionali per la modalità del duo. Contrappunto o unisono, senza differenza sostanziale di profonde emozioni, sonorità magnetiche e rese in un soffio. Un concerto che ti entra sotto pelle.


L’empatia è evidente ed è bellissimo e teatrale vedere la leggerezza di questi due grandissimi musicisti dialogare sul palco anche con ammiccamenti e gestualità e la poesia di quella chitarra, la magia delle scale, gli intervalli da brivido. Finisce un assolo e la sala vibra, ma decidendo di non applaudire consacra il momento a un silenzio sospeso.


La gamma delle sonorità è pressoché infinita ed è piacevole poter ascoltare con attenzione ogni passaggio dei pezzi eseguiti, cercando di decifrarne citazioni e inclinazioni, da Bach al flamenco fino al latino dissolto all’improvviso da una nota particolarmente acuta. Le note di chitarra e tromba volano alte, si corteggiano e c’è quel che di distorto e di perfetto che rende davvero unica e anti-convenzionale questa serata.


Nella terza storia si festeggia una fantastica realtà musicale e un altro duo particolare e raffinato, quello cioè formato da Laura Conti – voce potente e mai banale – e da Maurizio Verna che l’accompagna alla chitarra all’interno del primo set, in un percorso di ricerca delle fonti musicologiche di tradizione piemontese tradotta in un progetto musicale di grande impatto e dolcezza, con incursioni jazzistiche colte e opportune.


Ma la giornata di sabato 13 novembre si può tranquillamente definire “Enten Eller Day”: nel pomeriggio infatti all’Enoteca e Dintorni di Ivrea (dove Ciro – intenditore di vini e di buon jazz – si aggira tra i tavoli cercando di trovare un posto per tutte le persone incuriosite dalla presenza di microfoni e strumenti) è stato presentato il libro che parla di questo straordinario gruppo, probabilmente il più longevo sulla scena jazz italiana. Bellissimo oggetto dalla copertina nera e graffiti argentei, contiene le strepitose fotografie di Luca D’Agostino: momenti di estemporaneità e partecipazione che si sono tramutati in fonte di ispirazione per Flavio Massarutto, uno dei critici musicali e scrittori più sensibili e talentuosi che questo nostro ambiente possa offrire. Il risultato (Enten Eller, 2010, Edizioni Tipografia Gianotti) è davvero un’operazione artistica ed estetica di profonda rilevanza e non uno sterile prodotto promozionale. Imperdibile anche la postfazione di Guido Festinese. Da avere assolutamente nella propria collezione.


Splendente debutto, subito dopo, per il gruppo Phlebas Quartet (il nome viene da Thomas Eliot, citato durante il concerto dal notevole chitarrista Edo), protagonista anche di uno dei Dopoconcerto nell’accogliente ristorante In Borghetto, dove si sono esibiti nelle sere precedenti eccellenti musicisti torinesi come il sassofonista Gianni Denitto, il contrabbassista Giorgio Fiorini, Filippo Cosentino in trio, i Jazz to Beatles.


Nel secondo set della serata alla Sala Pinchia il gruppo propone le esatte atmosfere del cd Ecuba, con la presenza naturalmente di Javier Girotto al sax soprano il cui valore aggiunto, sia a livello umano che tecnico, ha reso quest’ultimo lavoro pubblicato uno dei più apprezzati del 2010 a livello internazionale.


Massimo Barbiero alla batteria, Giovanni Maier al contrabbasso, Maurizio Brunod alla chitarra e Alberto Mandarini a tromba e flicorno decidono di affidare l’incipit a Girotto ed è una Denique Caelum come una specie di aggiustamento iniziale, un accordo corale con frasi tesissime e una batteria spumosa che regola i volumi. Mandarini presenta i pezzi e i musicisti, con uno stile d’altri tempi e molta ironia, e nel successivo ‘Pragma’, insieme a Girotto, rende frammentato e magico e vagamente misterioso un tema complesso e bellissimo. Girotto è decisamente uno tra i sax soprano più incisivi e originali della scena jazz attuale e il dialogo con Mandarini è intenso e complice: alla fine del viaggio di note i fiati cedono il ritmo a un contrabbasso veloce e incalzante, e Maier si conferma uno strumentista davvero efficace. L’approccio ai brani è molto colto; a volte subentra un percorso sonoro inaspettato, magari tra contrabbasso e sax. Tutto è singolare e i distorsori usati da Brunod, i suoni di campana, gli attacchi sfuggenti e i passaggi leggeri tra registro alto e basso toccano momenti di profonda raffinatezza, tra voglia di sperimentazione e rigore della partitura. Un excursus tra mille e mille sonorità senza mai perdere di vista il tema, soprattutto in brani come Cristiana o la bellissima Sud nella quale ci si può perdere in mille dinamiche, tra calore, confusione allegra, e una batteria veramente luminosa. In platea, il figlio piccolissimo del fotografo Paolo Dezzutti danza tra le file di poltrone come rapito dal ritmo: lo ammiriamo sorridenti mentre anche noi vorremmo poterci lasciare andare in quel modo.


L’ultima storia ha un titolo definitivo: “La Musica e il Jazz nella Città dell’Uomo”, e così si ritorna ciclicamente a quanto diceva l’incipit. Un convegno al bell’Archivio Storico Olivetti, quattro personalità di rilievo inequivocabile e tre musicisti ad hoc (Barbiero, Brunod e Laura Conti). Si rimanda a un articolo che narri solo di questo argomento – perché cose da dire e volontà da esprimere ce ne sono davvero molte – ma esiste una parola chiave che sintetizza il punto fondamentale dei quattro interventi, e ne segna l’importanza: Sergio Giolito: jazz e nostalgia; Marco Basso: jazz e democrazia; Franco Bergoglio: jazz e multidisciplinarietà e infine Neri Pollastri: jazz e improvvisazione. Impossibile, a questo punto, non aver voglia di approfondire il discorso.