Foto: Cristina Vatielli/Prospekt
Roma Jazz Festival – Gezz Generazione Jazz.
Roma, Auditorium Parco della Musica. 11/30.11.2010
Come oramai da tradizione, con il mese di novembre ritorna nell’abituale cornice dell’Auditorium Parco della Musica il Roma Jazz Festival. Giunta alla trentaquattresima edizione, la rassegna si è sempre caratterizzata per seguire ogni anno un focus diverso su cui poi modellare il cartellone proposto. Quest’anno si è deciso di puntare prevalentemente sul jazz di casa nostra e in particolar modo sui giovani talenti, scelta che ha offerto nel contempo un duplice vantaggio: la possibilità a giovani musicisti di suonare su un palco importante e far in modo, in un momento economico particolare, di poter proporre il biglietto d’ingresso alla maggior parte degli spettacoli a soli cinque euro. Idea che a conti fatti si è rivelata vincente anche per la presenza di pochi ma ben selezionati artisti stranieri più affermati.
Ad aprire la manifestazione, giovedì 11 novembre, la Unknown Rebel Band di Giovanni Guidi, formazione che già l’anno passato aveva raccolto i favori di critica e pubblico in una bella serata insieme alla Cosmic Band di Petrella, anch’essa presente in questa edizione. Inevitabilmente a far registrare il primo sold out è stata però la prima ospite straniera, giovane anche lei con i suoi soli ventisei anni, ma ormai celebre anche al di fuori di un ambito più strettamente jazzistico, la talentuosa contrabbassista e compositrice Esperanza Spalding. Consapevole del ruolo da star che è riuscita a conquistarsi, con la sua immagine riportata sulle prime pagine delle riviste non soltanto musicali, la musicista di Portland si presenta sul palco bella e accattivante con più di mezz’ora di ritardo accompagnata, in una scena molto teatrale, da un raffinato tappeto eseguito da un trio d’archi. Fin dal delicato brano d’apertura la Spalding attinge dal suo nuovo album, Chamber Music Society, così come per buona parte di tutto lo show, in cui comunque non mancheranno anche dei momenti racchiusi nel progetto di prossima uscita, Radio Music Society. Sonorità dunque nuove e meno convenzionali quelle tracciate dalla contrabbassista e compositrice nelle quali, al linguaggio jazzistico, vengono affiancati elementi folk, latin e della world music inseriti in un contesto cameristico. La Spalding prende da subito la scena tutta per sé modellando arrangiamenti e fraseggi del contrabbasso alla sua voce. I brani spaziano dalle lente melodie di Little Fly alle atmosfere argentine di Chacarera passando per la rivisitazione di Wild The Wind in un contesto sofisticato in cui non tutto però sembra funzionare al meglio: la scelta di puntare sulle solide fondamenta della musica classica dà l’impressione di essere un freno all’impeto e alla freschezza della Spalding, peraltro scarsamente supportata anche dagli altri suoi più fedeli compagni di palco. La musica che ne vien fuori ha più spunti pop che pigli jazzistici e, non a caso, i momenti migliori risultano essere quelli in trio in cui meglio si riescono ad apprezzare le doti di primo livello della contrabbassista. Nel finale bel duetto con la brava corista Gretchen Parlato sulle note di Inutil Paisagem di Jobim e ben due bis a conclusione di un concerto che ha comunque entusiasmato il numeroso pubblico presente.
Tre giorni più tardi è la volta di quello che probabilmente rappresentava l’evento centrale più atteso dagli appassionati, ovvero l’incontro tra l’arte del fotografo Guy Le Querrec ed un quartetto da sogno formato dall’elite dell’avanguardia intellettuale francese. Il legame tra Le Querrec e la musica afroamericana ha storia lunga quando, già sul finire degli anni sessanta, immortalò varie icone jazz in quelle che diveranno nel tempo delle vere e proprie immagini di culto. Nei primi anni novanta i suoi scatti documentarono il viaggio in Africa di Louis Sclavis, Henri Texier e Aldo Romano che ispirò le musiche raccolte poi in due preziosi cofanetti che oggi rappresentano il primo passo di questo intrigante progetto. I primi due musicisti infatti li ritroviamo in questa formazione allargata che comprende anche le ance e il bandoneon di Michel Portal e le percussioni di Christophe Marguet.
Posizionati ai piedi di una tela in cui vengono proiettati gli scatti di Le Querrec suddivisi dallo stesso fotografo in sequenze tematiche, i quattro danno vita ad una entusiasmante e imprevedibile colonna sonora in cui improvvisazione ed estemporaneità vengono ad essere l’elemento cardine, peculiarità comuni anche all’arte di Le Querrec. La musica proposta dal quartetto, da Mingus a Ellington passando per brani originali, riesce a conferire movimento alle immagini, tutte in bianco e nero, seguendo fedelmente ed enfatizzando le varie storie raccontate in un crescendo di emozioni. Una accattivante poliritmia dal sapore africano fa da sfondo al reportage in Burkina Faso, una marcia ci accompagna lungo i percorsi tracciati dagli indiani d’America, free jazz e ironia per descrivere le allusioni ottiche e i giochi d’ombre. I quattro si conoscono bene, il dialogo continuo tra i due clarinetti bassi di Portal e Sclavis è qualcosa di raro e notevole perfettamente inserito nei continui cambi di una ritmica incessante altrettanto meritevole di attenzione. Uno spettacolo unico, incontro di due arti che mai si sovrappongono ma anzi si compendiano vicendevolmente grazie alla alte qualità dei protagonisti, visibilmente emozionati e soddisfatti alla fine di una preziosa serata da incorniciare.
Attesa anche per il ritorno, mercoledì 24, del Danish Trio di Stefano Bollani dopo il successo della passata edizione. In una gremita e sempre impegnativa Sala Santa Cecilia, un lento intro di piano solo introduce serioso l’entrata in scena dei due musicisti nordici in un brano d’apertura, Asuda, subito tirato e sostenuto, con il pianista italiano in primo piano subito esuberante. I tre oramai sono sei anni che frequentano gli stessi palchi e si sente: il costante interplay rappresenta il punto di forza con l’estroso batterista Morten Lund che segue passo passo le variazioni di un Bollani sempre molto scenico, mentre l’incedere più austero del contrabbasso di Bodilsen diviene il perfetto collante che traccia le linee da seguire. I brani proposti attingono sia dall’ultimo disco targato ECM del trio Stone in the water ma anche dalla musica carioca, dal pop e dagli standard più tradizionali. Ecco dunque che il tema di una Jacksoniana Billie Jean può essere il pretesto per una completa rivisitazione in chiave bop in cui i tre si dilettano in lunghi monologhi e spassosi scambi, un blues può assumere i colori bossa tanto cari a Bollani e una classica How Deep Is The Ocean? essere invece qui reinterpretata in modo più intimo e rispettoso in un repertorio come sempre di ampio respiro. Il nostro pianista si conferma uno dei più dotati e versatili pianisti europei e non fa nulla per nasconderlo in questa che è forse la sua dimensione migliore dove, alle qualità pianistiche, affianca uno scanzonato uso dell’ironia alla lunga però troppo forzato in uno spettacolo comunque piacevole.
Di tutt’altro spessore il concerto conclusivo della manifestazione che vede la tromba di Fresu ed i tasti del pianista americano Uri Caine nuovamente insieme per presentare in anteprima il nuovo progetto “Barocco in Pispisi” dedicato alla musica della compositrice e soprano del Seicento Barbara Strozzi. Affiancati sul palco dal quartetto d’archi Alborada, la nuova sfida dei due musicisti è stata quella di cimentarsi in un terreno ai confini tra jazz e classica ricco di spunti assai stimolanti. Territorio rinascimentale assai più familiare agli Alborada, ma anche un naturale sbocco per uno studioso come Caine e per la costante ricerca che ha da sempre contraddistinto il cammino musicale di Fresu. Con queste premesse l’occasione di assistere a qualcosa di pregevole era ghiotta, attese che sono andate ben oltre le aspettative. I sei infatti hanno dato vita ad una serata divisa in due set in cui ogni particolare è stato frutto di meticolose attenzioni e dove contrappunti e fughe lasciano campo aperto ai vari interventi e improvvisazioni di un Fresu in stato di grazia. Le linee disegnate dagli archi trovano nelle leggere e soavi melodie di Caine una simbiosi perfetta in un tappeto ideale per l’elegante suono del flicorno di Fresu che non rinuncia anche qui ai suoi amati effetti e soffi, veri stimolanti momenti di rottura. Quando è il dialogo tra i due musicisti a rimanere al centro della scena, l’essenziale pianismo di un concentrato Caine si fa ricco di richiami alla musica del novecento con la tromba di Fresu libera di spaziare colorando con gusto le melodie che, nonostante un intervallo di quasi quattrocento anni, riescono ancora a suonare attualissime in un intreccio straordinario con sonorità a noi più vicine. Una musica d’insieme impegnativa ma assai accattivante in cui le ostentazioni finalmente vengono messe da parte a favore di una delicatezza che tocca l’anima. Lode a tutti in una serata di musica colta immortalata in un doppio cd e dvd in uscita nel 2011, dove tutto ha funzionato meravigliosamente bene in un’atmosfera d’altri tempi che chiude nel migliore dei modi una rassegna che ogni anno non finisce di regalare sorprese ad un pubblico sempre più attento e numeroso.