Slideshow. Aisha Ruggieri

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Slideshow. Aisha Ruggieri.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Aisha Ruggieri: Si tratta di un omaggio a Burt Bacharach; trovo che lui sia un compositore bravissimo di canzoni, di melodie che rimangono in testa, sorrette da strutture e armonie sempre interessanti. Già da un paio d’anni stavo pensando di registrare questo disco, sia perché amo la sua musica, sia perché trovo sia un repertorio che si presta ad una “revisione” senza perdere la forte identità melodica e infine perchè credo che alcuni brani senza tempo, come Magic Moments oppure What the world needs now possano diventare veicolo per avvicinare al jazz anche quel pubblico che talvolta ha un po’ di difficoltà nella percezione di un certo tipo di repertorio, un po’ per la cultura italiana, con un background differente rispetto alla cultura americana.



JC: In che senso?


AR: Non intendo dire che si tratta di un’operazione commerciale, al contrario, ho tentato di far miei quei brani il più possibile, senza preoccuparmi di andare in una direzione piuttosto che in un’altra, ma scegliendo comunque di lavorare su un materiale di partenza che potesse far sentire a proprio agio tutte le tipologie di ascoltatore e che soprattutto rispecchiasse il tipo di ricerca musicale che sento più appartenermi e cioè la convergenza fra arrangiamento, improvvisazione e composizione, ricercata attraverso un imput melodico forte quale può essere quello della musica di Bacharach.



JC: Chi o cosa è stato fondamentale per il disco?


AR: Fondamentale è stato l’apporto (ed il supporto) creativo dei miei bravissimi colleghi; la recording session si è svolta in un clima di collaborazione e concentrazione molto alto ma sempre in gran relax, con il sorriso, la simpatia e la sincerità nell’affrontare la musica da registrare. Credo che i musicisti con cui ho registrato abbiano contribuito agli arrangiamenti di questo disco quanto me, personalizzandoli a tal punto da far sembrare che fossero scritti per loro ed emozionandomi e sorprendendomi in quella musica che, sebbene scritta da me, ad ogni nota da loro intepretata assumeva una connotazione fresca e nuova alle mie orecchie. Infine, la produzione molto “supportive” della Geco Records e la maestria del fonico Massimo Visentin hanno contribuito enormemente a creare una sinergia che mi ha motivata, stimolata facendo di quest’esperienza discografica un qualcosa di speciale.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


AR: Mio padre, che mi regalò una tastierina quand’ero in quarta elementare; lui era rappresentante di strumenti musicali per la Yamaha e suonava la chitarra; amava molto tutti i generi di musica, specialmente il blues e la musica brasiliana. In casa mia c’erano frequenti feste e jam session con tutti i tipi di musicisti, di ogni stile e nazionalità. Poi, in prima media presi una partitura di flauto soprano e contralto e la trasportai autonomamente al pianoforte facendone una partitura pianistica, così poi mia madre, (più metodica… ), mi iscrisse a lezione di pianoforte. Ma il primo brano che suonai da sola, su quella tastierina, facendone la melodia con la destra, fu “I just called to say i love you” di Stevie Wonder. Mia madre ascoltava Stevie Wonder “a manetta” in macchina, ed io imparavo con lei, cantando.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


AR: Due episodi: innanzitutto la forte emozione che ho provato quando un amico carissimo sassofonista, alla mia domanda “ma cos’è il jazz?”, mi rispose regalandomi due dischi e, precisamente, una raccolta di Bill Evans della collana di Musica Jazz e Olè Coltrane di Coltrane. Avevo circa diciassette anni e quei due dischi segnarono la mia vita.



JC: E l’altro?


AR: Il secondo episodio, sempre nello stesso periodo, quando un pianista, hammondista belga, amico dei miei genitori, suonò “Take the A train” sul mio clavinova di allora, ed io lo registrai e riascoltai quella sua versione per ore e ore senza capire cosa succedeva e soprattutto domandandomi cosa fosse quella spinta ritmica pazzesca, data da quelle frasi veloci e la sinistra in walking bass… mi innamorai di quella musica e decisi che sarei diventata una jazzista.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


AR: Certamente ha un significato, così come ce l’hanno le parole rock, pop, classic. Credo che il dilemma non sia se la parola ha ancora un significato, in quanto tutti coloro che si accostano a questa musica sono probabilmente animati dalla stessa spinta interiore e dal potere travolgente che essa esercita sull’ascoltatore sensibile, ma piuttosto consista nel fatto che il jazz si è evoluto in una situazione storica e sociale ben differente da quella attuale, permettendone uno sviluppo molto veloce e “sanguigno”, ossia una vera e propria necessità artistica. Credo che i momenti decisivi nell’arte avvengano quando vi è una necessità profonda di sfogo, cambiamento, malessere sociale.



JC: E oggi è uno dei ‘momenti decisivi’?


AR: Il momento storico che viviamo non è a mio avviso facile, tuttavia credo che il jazz come forma espressiva, artistica e musicale possa essere più identificativa di un modo di approfondire e ricercare la musica, che non ricalcarne le orme già sapientemente sviscerate dai grandi prima di noi. Quindi, sì, ha un significato, se però portato avanti filosoficamente come “modus operandi” piuttosto che come accademizzazione di un qualcosa che ha già toccato i suoi massimi livelli negli anni Settanta.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


AR: Per me è molto difficile rispondere a questa domanda, che mi pongo da tanti anni.



JC: Provaci…


AR: Preferisco non dare un’etichetta che delinei delle caratteristiche secondo le quali “una determinata musica è jazz, un’altra non lo è”. È chiaro che vi sono degli aspetti tipici di questa forma di espressione, quali il ritmo afro-americano, lo swing, l’armonia trattata in un particolare modo che connotano generalmente questa musica per l’appunto come “Jazz”; tuttavia, vi sono tanti illustri casi di dischi che hanno fatto la storia della musica afro-americana seguendo un percorso stilistico lontano da alcuni stilemi propriamente definiti “jazzistici”.



JC: In definitiva…


AR: Jazz per me è una musica armonicamente ricca, melodicamente profonda e caratterizzata da una fortissima componente improvvisativa e da poliritmi africani.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


AR: Profondità, emozione, bellezza, forza, libertà, coraggio, movimento… A volte anche rabbia, soprattutto per la consapevolezza che per quanto la si possa studiare ed approfondire, rimane un pozzo di conoscenza senza fondo.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


AR: Credo che sia impossibile avere una visione obiettiva di una manifestazione artistica dell’epoca storica in cui si vive. Probabilmente fra un secolo, qualcuno che analizzerà cosa sta succedendo ora nella musica, jazz e non, vedrà aspetti che noi non siamo in grado di analizzare perché troppo “imbevuti” del nostro presente. Tuttavia, è innegabile che gli stili si stiano sempre più fondendo fra loro; già l’inserimento del jazz nei conservatori ha creato più collaborazioni fra musicisti di estrazione classica e musicisti di estrazione jazz. Io stessa ho collaborato con musicisti classici, proprio perchè ero inserita in una realtà accademica; anche il pop, il folk, il rock, l’hip hop subiscono influenze continue; personalmente, trovo che questo sia un fenomeno positivo. Anche se qualcosa di meraviglioso è già stato creato, “inventato”, non significa che non possa essere creato qualcosa di altrettanto bello seppur differente.



JC: Approfondiamo questo concetto…


AR: A volte vi è la disperata necessità di etichettare qualcosa, chiuderlo in dei confini stilistici ed affermare subito dopo che quella cosa è quello che noi vogliamo fare o rappresentare. Trovo personalmente che questo sia sbagliato, contrario alla lezione dei grandi maestri e soprattutto antitetico rispetto a ciò che per natura è l’essere umano, cioè dinamico, non statico. Gli estremismi sono, sia in una direzione che in un’altra, secondo me molto pericolosi e non sempre produttivi.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


AR: Diciamo che ognuna delle registrazioni effettuate rappresenta un momento ben preciso del mio percorso. È bellissimo avere in mano il disco finito, ma è più bello prepararlo, scriverne i brani, provare, andare in studio e chiudersi lì per giorni. È una dimensione particolare ed intima della vita del musicista; sfortunatamente, ogni volta che il prodotto è finito, vorresti aggiungere qualcosa, cambiare qualcos’altro… inoltre, si lavora talmente tanto ai brani che prima di riascoltarli passano dei mesi… .tuttavia, il primo che ho registrato, “A-Symmetry”, a New York, è un ricordo ‘fortÈ proprio perchè fu il primo, lontano dall’Italia, con una ritmica americana che conoscevo poco, quindi ero molto tesa ma felice al contempo per la mia “prima volta”.



JC: E l’ultimo?


AR: L’ultimo invece è il risultato di un’intesa di gruppo forte, un percorso di ricerca lenta e con il giusto “respiro”. Ma quello che preferisco in assoluto è il prossimo!



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte, nella musica, nella cultura, nella vita?


AR: In questo senso ho avuto una vita molto attiva, anche un po’ frenetica in certi momenti; didatticamente, ho frequentato tantissimi workshops, conservatori, lezioni private, avendo cosi la fortuna di studiare, ascoltare e frequentare musicisti formidabili, quali Paolo Birro, Stefano Battaglia, Salvatore Maiore, Marcello e Pietro Tonolo, Carlo Atti, Robert Bonisolo, Dado Moroni, Marco Tamburini e molti, moltissimi altri. Ognuno di loro, a prescindere dalla scelta stilistica, mi ha arricchito ed aiutato a forgiare la mia individualità, credendo e sostenendo la mia musica.



JC: E nella vita?


AR: Nella vita sono anche più fortunata; ho viaggiato molto, incontrato persone interessantissime con cui parlare di tutto e la cui presenza nella mia vita mi ha portato a cercare di essere sempre un individuo migliore; la mia quotidianità è costellata di persone belle, vivaci, curiose, positive che giornalmente mi insegnano a vivere, a stare bene nella mia pelle, a cercare cercare cercare… amo parlare, curiosare nell’esistenza e quest’aspetto mi ha permesso sempre di comunicare tanto con la gente. Non credo nella storia romantica che l’arte bella si ciba solo di tragedia e disagio esistenziale… la positività può molto, moltissimo e le persone che più mi insegnano sono così…



JC: E la cultura?


AR: Impossibile vivere senza cercarla. In qualsiasi forma, letteraria, musicale, sociale… è il sale della vita.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


AR: Deve ancora venire, credo, in me, una percezione così profonda e consapevole della musica. Per ora, quando della gente che non capisce niente di jazz o non lo ama particolarmente viene a dirmi, dopo un concerto, che si è emozionata. Quello è il mio goal.



JC: Il solo?


AR: Un altro momento molto bello è quando riesci a provare, (e dura pochissimi istanti) durante l’interplay in concerto, una sensazione di non pensare più a nulla, di annullare il pensiero e farti trasportare dalle onde sonore, diventando un mezzo di trasmissione di un qualcosa che è più grande di te.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


AR: Tutti i musicisti curiosi, aperti e positivi.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


AR: Dopo il disco mi sono presa un attimo di pausa; avevo bisogno di disintossicarmi un po’ da un periodo intenso sia di serate che di studio e non riuscivo più a concentrarmi. Mi piacerebbe registrare prossimamente sia un disco con il Kubopower, ossia una mia formazione allargata comprendente batteria, percussioni e fisarmonica (che si è esibita al Padova Jazz Festival 2010) e uno in piano solo, per misurarmi con una dimensione che ancora non ho affrontato sufficientemente.



JC: Parlaci dei tuoi impegni futuri.


AR: Si pensava ad un secondo volume del Playing Bacharach, avendo lasciato fuori alcuni brani bellissimi per esigenze di spazio. Oltre ai concerti di presentazione del disco, ci sono un paio di festival con altre formazioni (fra cui l’Eptagroove, formazione con cui ci siamo esibiti a Roccella Jonica 2010); inoltre, ho un altro progetto che partirà nel 2011, non esclusivamente musicale… ma per scaramanzia, taccio! E infine… la regola delle tre esse… s.s.s. suonare, scrivere, studiare!