Slideshow. Simona Bencini

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Simona Bencini.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Simona Bencini: Spreading love è il risultato di una stagione di concerti e di un paio di session in studio fatte fra il 2009 e il 2010 con dei musicisti eccezionali che, sostanzialmente, sono prima di tutto degli amici ai quali sono legata da una profonda stima e rispetto. Con Mario Rosini e Mimmo Campanale avevamo già collaborato ai tempi dei Dirotta su Cuba, ma non avevamo mai affrontato un progetto nuovo, tutto nostro. L’occasione si è presentata con la richiesta da parte di un paio di festival jazz di vederci esibire insieme. Scegliemmo così di fare un tributo al grande Duke Ellington; Mario Rosini si occupò subito degli arrangiamenti e dopo alcuni giorni di prove a Bari con Campanale e Bassi, siamo partiti. Dopo un primo rodaggio del repertorio, da subito è nata l’esigenza da parte di tutti di eseguire sul palco del materiale inedito e così, dopo un paio di session di scrittura e di registrazione, alle quali si è aggiunto anche Gaetano Partipilo, ci siamo resi conto che avevamo potenzialmente in mano il nostro primo disco. Entusiasta del materiale che avevamo registrato, ho cominciato a cercare i giusti interlocutori e partners per capire se era possibile pubblicarlo. Una volta ascoltati i brani, il primo a chiamarmi con entusiasmo è stato Gegé Telesforo che ci ha accolto a braccia aperte nella sua etichetta GrooveMaster. Spreading love è il risultato dell’incontro fra il jazz e la world music a più ampio respiro. Ognuno di noi, provenendo da formazioni ed esperienze diverse, ha inevitabilmente portato la sua personalità all’interno del progetto, contaminandolo.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


SB: È la voce di mia madre che cantava per farmi addormentare. Mia madre ha una voce bellissima, delicata, flautata. Era una cantante da giovane, suonava nelle orchestre da ballo di un tempo intorno Firenze, cantava Caterina Valente, Mina, le più belle canzoni della tradizione napoletana. È stato grande ed inevitabile il fascino che hanno avuto su di me la sua voce ed il suo passato di cantante, catturato da quelle vecchie foto in bianco e nero custodite gelosamente nei suoi cassetti.



JC: Quali sono stati i momenti decisivi della tua vita artistica?


SB: La mia vita artistica ruota fondamentalmente intorno a due momenti, quello “dirottiano”, permettimi il neologismo, cioè l’incontro con i Dirotta su Cuba e quello “post-dirottiano”, il periodo successivo all’abbandono della band. Avevo 20 anni quando li ho conosciuti. Avevo cominciato da poco a cantare e non sapevo ancora bene cosa avrei fatto nella vita, avevo appena cominciato l’università… Non conoscevo bene neanche la mia voce, le mie potenzialità. Vocalmente ero come un diamante grezzo ancora da tagliare, ma era evidente che avevo una grande energia e potenza. Avevo sicuramente una spiccata predisposizione per la musica dove il ritmo era preponderante, avendo io da sempre un talento innato per il ballo. La musica che amavo ascoltare era fatta per la maggior parte dai neri, aveva groove, un sound inconfondibile, arrangiamenti con fiati e percussioni. E soprattutto, adoravo, ed ho cercato di emulare per anni, la voce, lo stile, il feeling dei cantanti di colore, primi fra tutti Aretha Franklin e Steve Wonder. Per questo incontrare i Dirotta su Cuba, band sconosciuta che nel 1989, a Firenze, dietro casa mia, cercava di fare quella musica in italiano, è stata una folgorazione. Grazie a loro ho capito quale sarebbe stato il mio posto, almeno per un po’ di tempo.



JC: E poi cosa ti è successo?


SB: Uscita dai Dirotta, nel 2003, per la prima volta mi sono ritrovata da sola, con la mia esperienza, con la mia persona, i miei difetti e i miei pregi, con la mia voce. Non ero più la cantante dei Dirotta su Cuba, ma Simona Bencini. È stato un periodo molto difficile, artisticamente, umanamente e psicologicamente, ma che mi ha arricchito tantissimo. E’ come se avessi ricominciato tutto da capo.Ho provato ad aprire quei cassetti rimasti chiusi, è stata una sorta di terapia scrivere e produrre quasi per intero il mio primo disco da solista Sorgente. Ho cominciato a collaborare con altri artisti, a usare la mia voce in modo più dinamico, a cantare un repertorio diverso. Da quel 2003, sono passati tanti anni, sono diventata mamma, ho sofferto, ho cantato. E con la maturità, e una riacquistata serenità e consapevolezza, sono approdata al jazz.



JC: E il momento più bello in assoluto della tua carriera di musicista?


SB: Ce ne sono stati moltissimi, fortunatamente. Quando ho suonato con Toots Thielemans sul palco dell’Ariston nel 1997, per esempio, è stato un grande privilegio conoscere un grande musicista e una grande persona come Toots. Un altro bellissimo momento quando grazie al progetto di Stefano Bollani, Abbassa la tua radio, ho condiviso il palco con tanti colleghi e jazzisti del calibro di Rava, Petrella, Girotto, Tavolazzi, eccetera. Quella è stata la prima volta che mi avvicinavo al jazz.



JC: Per te la bellezza femminile è stato un ostacolo o un vantaggio alla tua carriera artistica?


SB: Sicuramente non è stato un ostacolo, la gradevolezza nell’aspetto rende più semplici le cose in qualsiasi ambiente, in qualsiasi rapporto. È sicuramente un vantaggio nel momento in cui la bellezza viene saldamente accompagnata e riempita da altre doti e capacità e non rimane un mero vuoto involucro. Non sono mai stata però agevolata più di altri per la mia gradevolezza estetica, se non forse in una primissima fase. Nelle fasi più importanti della mia vita artistica, ho sempre dovuto giustamente dimostrare quanto valevo e non sempre, in realtà, ne sono uscita con il massimo dei voti, al di là della mia prestanza fisica.



JC: Tra i diversi musicisti con cui hai collaborato, chi ricordi con maggior affetto?


SB: Devo dire che nel bene e nel male tutti gli artisti e musicisti con i quali ho collaborato mi hanno insegnato, lasciato qualcosa. Ricordo con affetto soprattutto chi ha condiviso con me gli esordi come Stefano De Donato e Rossano Gentili dei Dirotta, il nostro produttore Pierpaolo D’Emilio; ricordo con affetto i sogni ad occhi aperti fatti con Irene Grandi, sognavamo tutte e due di diventare delle rockstar; ricordo con affetto i consigli della mia “sister” Sarah Jane Morris che mi ha insegnato che “less is more”. Ripenso con un sorriso a come era il Bollani quando l’ho conosciuto e sono felice di vedere che è rimasto tale e quale ad allora. Ringrazio ancora Pacifico per avermi scritto una canzone stupenda, le più belle parole che abbia mai cantato, per aver dato un suono alla mia voce di dentro. Ricordo con affetto Toots Thielemans, la sua caratura artistica e la sua grande umiltà.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante e ora ad abbracciare il jazz?


SB: Cantare per me è sempre stato naturale, istintivo, lo faccio da sempre. Avrei cantato comunque, anche se avessi fatto il medico o la parrucchiera. Il fatto che cantare sia diventata la mia vita ed il mio lavoro non è stata una scelta consapevole, almeno all’inizio. Ho cominciato per passione, cantare mi faceva stare bene, mi faceva sognare, era un’esigenza. Poi frequentando gli ambienti giusti, musicisti, sale prova, locali ecc. mi sono fatta una certa credibilità ed hanno cominciato a chiamarmi. Questo è successo appena uscita dalle superiori, ero in piena crisi esistenziale e la musica fu il mio appiglio, la mia salvezza e mi indicò la strada. Il jazz l’ho incontrato una decina di anni fa, è un incontro ancora in corso, lento ma profondo. È arrivato con la maturità, dopo un periodo non facilissimo. Ho sempre pensato di non essere all’altezza del genere, di non avere gli strumenti per comprenderlo e per questo ne ero stata distante. Adesso invece, grazie anche all’appoggio e alla collaborazione con gli LMG Quartet, mi sono convinta a far uscire allo scoperto questa mia “jazz attitude” che molti dicono io abbia.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


SB: Certo, per me ne ha moltissimo, significa storia di un popolo, incontro fra culture, creatività, musicalità nella sua massima espressione, libertà. È vero che è un termine molto abusato oggi, ma forse perché per troppo tempo è stata una musica élitaria. Oggi il jazz invece deve arrivare a tutti.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


SB: È quello che sto vivendo adesso, sento finalmente di aver preso in mano le redini della mia vita: libertà, responsabilità, consapevolezza e gioia per aver raggiunto tutto questo. Rappresenta anche il rifiuto all’omologazione ad una musica globalizzata a vantaggio dell’improvvisazione, del creare ogni volta qualcosa di nuovo.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


SB: Non saprei dire esattamente, sono ancora nella fase di conoscere bene quello del passato. Penso comunque che essendo una forma molto libera e creativa di linguaggio, in qualche modo il jazz possa essere definita una forma di arte contemporanea, cioè una forma d’arte difficilmente omologabile, in qualche modo strettamente legata alle trasformazioni del tempo corrente, precursore anche di tendenze. Essendo poi direttamente in contatto col profondo, con l’anima di ogni musicista, il jazz ha una capacità e una potenzialità espressiva dei sentimenti umani senza precedenti.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?


SB: Beh, sicuramente il primo disco che ho inciso, quello coi Dirotta su Cuba, riconosco in quella voce, in quella spontaneità, quel diamante grezzo di cui ti parlavo prima e mi fa una certa tenerezza. Mi piace molto poi la registrazione che ho fatto insieme al Parco della Musica Jazz Orchestra diretta da Maurizio Giammarco, avevo sempre sognato di cantare in una big band.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel canto, nella musica, nella cultura, nella vita?


SB: Sono moltissimi, da Marvin Gaye a Steve Wonder, da Chaka Khan agli Earth Wind & Fire, nel jazz Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan, Carmen McRae, Billie Holiday, Nina Simone. Nella vita tutti hanno qualcosa da insegnare, basta sapersi ascoltare ed io sono una persona che ascolta molto.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


SB: Sto lavorando ad un album di inediti, cantati sia in inglese che in italiano, con il contrabbassista Dario Rosciglione, che oltre essere un grande musicista, ha un bel gusto in fase di produzione. Vorremmo fare un disco con grandi arrangiamenti e melodie raffinate, un po’ come si faceva un tempo.