Slideshow. Cesare Petrelli

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Slideshow. Cesare Petrelli.


È uscito in questi giorni l’album Cape May Lighthouse, a firma Marinoni Baracco Petrelli, acquistabile solo su Internet: i tre musicisti che vi hanno suonato, componendo e improvvisando le musiche sono appunto Sandro Marinoni al flauto e al sax tenore, Fabrizio Baracco al contrabbasso e Cesare Petrelli alla batteria (più il pianista russo Andrej Kutiv in un paio di intreventi) che non si sono risparmiati nel creare ed eseguire otto brani affascinanti sin dai titoli: Cape May Lighthouse, Perfect Shape, Baracco’s Blue, Requiem M411, One Line, 15-18, Marrekech, Cactus. Si tratta di un sound sperimentale, ma assai godibile, come risulta anche dall’intervista con il batterista Cesare Petrelli, che è un po’ l’intellettuale del gruppo.



Jazz Convention: Puoi parlarci del vostro nuovo lavoro discografico?


Cesare Petrelli: Cape May Lighthouse è il frutto di un confronto musicale di circa sei anni. In questo disco abbiamo lavorato ricercando gli equilibri fra le varie dinamiche e la forma complessiva ed espressiva, alla ricerca “rabdomantica” della sezione aurea, del climax, del “momento magico involontario”. L’aleatorietà dell’approccio tematico e di improvvisazione offre costantemente spunti per l’invenzione di nuove cellule ritmiche o melodiche, le quali, divenute oggetto di sviluppo, rafforzano e sostengono l’interplay fra i musicisti. Credo che sia proprio questo uno degli aspetti più interessanti e riusciti di questo lavoro che alterna con disinvoltura energia ritmica a momenti di lirismo melodico, gioco a meditazione.



JC: Che modelli di riferimento avete avuto per Cape May Lighthouse?


CP: Non abbiamo avuto modelli di riferimento. Lo stile di questo trio è nato sotto l’egida della più pura espressività individuale. Detto ciò è impossibile non esser influenzati più che da stili anche solo da attimi, “gestus”, che ascoltiamo e anche inconsciamente facciamo nostri, ma un modello di riferimento non c’è mai stato, anche perché incompatibile con l’idea primigenia di educazione musicale (nell’accezione latina e-ducere, condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto in noi) insita nel nostro progetto.



JC: Cesare, mi racconti ora il primo ricordo personale che hai della musica?


CP: Il primo ricordo personale è sicuramente legato all’esibizione per lo Zecchino d’Oro, il noto concorso canoro per bambini: all’età di sei anni mi trovavo letteralmente ‘catapultato’ sul palcoscenico del più importante teatro della mia città, il Teatro Civico di Vercelli; vincente della selezione regionale, acclamato dal pubblico… insomma, diciamo un bel battesimo! Da lì ho preso il voto da musicista e, malgrado le immense difficoltà che trovi tale figura in questo paese, penso sia stata la mia vera fortuna.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un batterista?


CP: È stato un percorso tortuoso: come dicevo sono partito cantando; quasi subito mi sono trovato col violino sulla spalla, sotto caldo consiglio di un maestro di musica. Contemporaneamente mi sono accostato al pianoforte, dovendo sostenere l’esame di pianoforte complementare in conservatorio. Dal piano classico, attraverso il rag-time, sono approdato al mondo del jazz e ascoltando determinati dischi (ricordo ad esempio A Love Supreme o A Kind of Blue) e batteristi (come Art Blakey, Jimmy Cobb, Louis Bellson ed Elvin Johnes) ed ancora formazioni che vanno dal trio leggendario Evans-Motian LaFaro ai gruppi moderni come gli Yellow Jackets e la Dave Weckl Band, ho deciso di dedicarmi all’universo poliritmico della batteria jazz.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


CP: La parola Jazz è una parola grande… molto grande… che sul finire dell’Ottocento, cioè da quando è nata, ha assunto camaleonticamente significati diversi. Si pensi alla funzione di liberazione e sfogo che aveva per gli schiavi neri di fine Ottocento; il fascino elegante delle orchestre come quelle di Benny Goodman e Glenn Miller; ed ancora la rabbia del free-jazz Black power!; ed ancora l’intellettualismo di Bill Evans o Keith Jarrett. Oggi il jazz è tutto questo e altro. È protesta com’è virtuosismo della forma; è espressione del proprio ego nella sua forma più istintuale, il suono. Jazz è un gestus, un graffio, uno sguardo, la voce con la quale nasciamo. Questo è ciò che da sempre lo contraddistingue ed è destinato a perpetrare.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


CP: Il jazz a mio modo di vedere è massima libertà di espressione. È un mondo nel quale possiamo esprimerci a 360°… non esistono “norme o divieti”… nessuno ti dice cos’è giusto e cosa non è giusto. È un dialogo con se stessi e con la propria coscienza. Il jazz è la voce della nostra anima senza mediazioni. “Ciò che è più particolare è l’identità suono-senso: uno strumento, in sintesi, può venir impiegato, semioticamente, come mezzo di comunicazione ma anche di significazione. Con la conseguenza che in questa semiosi è difficile (o impossibile) distinguere i significanti dai significati”, come scrive Luca Cerchiari ne Il Jazz, una civiltà afro-americana ed europea, Bompiani, Milano 2001).



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


CP: Ricollegandomi a quanto appena detto, il jazz è – e credo sarà sempre più – arte dell’individuo, esaltazione della libertà d’espressione. Mantenendo questa costante il jazz può mutare e quindi evolversi (ma anche involversi) in diversi modi: si parla da tempo del musicista universale e cioè il musicista non solo strumentista ma conoscitore della musica nel più ampio senso del termine. Credo che nei diversi ambiti sia il musicista jazz l’eletto in grado più di ogni altro di avvicinarsi a questa condizione, per via della natura trasversale insita nel suo linguaggio che nasce dal canto africano e si sviluppa grazie alla musica popolare europea e alla musica colta occidentale.



JC: Tra i molti dischi che hai sentito ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


CP: Affinity, con Toots Thielemans, anno 1978, con Larry Schneider, Marc Johnson, Joe La Barbera, uscito per la Warner Bros.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella bateria, nella musica, nella cultura, nella vita?


CP: I riferimenti per quanto riguarda la batteria sono molti; ne cito solo alcuni: Elvin Jones, Jack DeJohnette, Tony Williams, Paul Motian, Roberto Gatto, Bob Moses, Bill Stewart e John Riley… nella musica in generale: tutta la musica classica; Ennio Morricone. Maestri nella cultura per me sono state tutte le persone virtuose che hanno saputo rimaner fedeli a se stessi, siano grandi personaggi o perfetti sconosciuti, e lo sono le persone veramente libere di pensiero. Tra i contemporanei penso a Gianpaolo Pansa. Fortunatamente i riferimenti ‘di vita’ li ho sempre avuti all’interno della mia famiglia.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


CP: Ho molte idee ma la musica richiede tempo e sacrificio, cose che, allo stato attuale delle cose nel nostro paese, non sono proporzionalmente riconosciute nè a livello di notorietà (tanto è vero che non si contano i grandi musicisti perfettamente sconosciuti), nè a livello di remunerazione, nè a livello di dignità, perché manca un adeguato background culturale a causa della bassa qualità del materiale proposto dai media, radio e televisione soprattutto, che rimangono tuttora la principale fonte di informazione – e fruizione – della musica per la stragrande maggioranza della popolazione.