Slideshow. Enzo Rocco

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Slideshow. Enzo Rocco.


Jazz Convention: Primo di tutto, vuoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?


Enzo Rocco: L’anno scorso erano usciti i tre cd della “trilogia del soprano”, testimonianza di tre concerti in duo rispettivamente con Lol Coxhill (era dal 2000 che non registravamo nonostante la frequentazione costante), con l’argentino Pablo Ledesma, altra mia vecchia conoscenza, e con Gianni Mimmo, col quale invece avevo suonato una sola volta precedentemente (il concerto di Leuven, quello registrato, è stato il primo concerto in duo che abbiamo mai realizzato). Finalmente invece pochi giorni fa è arrivato “Domestic Rehearsals”: il duo con Actis Dato ha cominciato a imperversare nel 1997 e non si è mai fermato, nonostante le registrazioni si fossero fermate ai due dischi di più di dieci anni fa. Era ora che ci si rifacesse vivi, scegliendo di riproporre i pezzi del repertorio concertistico piuttosto che di preparare nuovo materiale appositamente per l’occasione. Credo che il duo abbia un suo punto di forza nella presenza scenica, una esecuzione dal vivo di brani più che rodati garantiva molta più freschezza e “verità”. Carlo ed io siamo anche particolarmente soddisfatti di essere usciti dalle grinfie delle cosiddette etichette discografiche (un paio delle quali recentemente ci hanno chiesto di comprarci… 500 copie del nostro stesso disco in cambio della sua realizzazione!!!) per immetterci nel mondo del “download” e della musica virtuale attraverso la CDbaby di Portland. Il cd esiste fisicamente, naturalmente, ma soprattutto la distribuzione è pensata attraverso i grandi negozi virtuali ormai in rete da anni. Speriamo vivamente che l’esperimento funzioni, sennò… lunghissimo, troppo, sarebbe il discorso sul mercato discografico e sulla visibilità del lavoro del musicista in epoca di mp3… rinvierei ad altra occasione.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


ER: Sicuramente uno dei primi riguarda i dischi delle opere di Verdi che mio padre ascoltava sul giradischi di casa. La musica di Verdi è stata sicuramente la colonna sonora della mia infanzia. Poca musica sinfonica, molta lirica, un po’ di canzoni napoletane classiche (Murolo, Sergio Bruni). E poi le prime lezioni di piano. Quelle grazie a cui decisi che la musica andava imparata a orecchio o improvvisata. Ho odiato il piano. E per fortuna l’ho subito abbandonato.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


ER: Forse la naturale tendenza all’improvvisazione mostrata fin da bambino. Improvvisazione ingenua, ma urgente. Poi ho comprato una chitarra scassata a 14 anni senza sapere che musica mi piacesse suonare. Non il rock, non ci ho mai avuto molto a che fare, solo proprio un pochino di blues. Ascoltavo molto il folk (era l’epoca della Nuova Compagnia, del Canzoniere del Lazio e via discorrendo… quel “folk” lì insomma), mi innamorai degli Area che mi pareva mischiassero tutto. Poi un giorno, 16 anni, inciampai nel mio primo disco di jazz in assoluto: Dolphy che suonava “Naima” nel gruppo di Coltrane. E proprio pochi mesi dopo Mike Westbrook dal vivo seguito, la stessa sera, da Mengelberg/Bennink. La quadratura del cerchio. Se invece la domanda si riferisce anche al perché dedicarsi al jazz professionalmente… è semplicemente perché “ci sono caduto dentro”: mentre studiavo all’università cominciai a strimpellare in giro nei ‘clubini’ fino ad accorgermi che i soldini bastavano a pagare le bollette. Oddio, nei ‘clubini’ si suonava un jazz che io non ero particolarmente capace di fare, ma in attesa di trovare una via musicalmente più congeniale è servito a fare un bel po’ di esperienza.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


ER: È talmente pregna di significato che mi addolora associarla a tanta musica che si produce e che però è impossibile non catalogare in quanto jazz. D’altra parte molti musicisti preferiscono non utilizzarla più, o almeno non utilizzarla troppo. Ma una musica è jazz solo perché contiene qualcuno degli elementi caratteristici del jazz? Oppure può una musica non dirsi jazz perché utilizza solo alcuni e non altri dei suddetti elementi, o solo parzialmente? E poi questi elementi non si possono evolvere fino addirittura al punto di diventare il proprio contrario? Faccio moltissima fatica a non ritenermi un musicista jazz (perché poi dovrei farlo???). Però quando mi dicono – non spessissimo, ma accade – che il mio non è jazz rispondo che è assolutamente vero. Troppo complicato per me. Soprattutto completamente inutile. I nostalgici del “jazz dei bei tempi” capiscono solo quello che vogliono capire. I maniaci dell’avanguardia ad ogni costo capiscono solo quello che vogliono capire. Io temo che non capirò mai nulla, ma vivo allegro.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


ER: Tutto quello che non c’entra nulla con la roba patinata e à la page che si accinge a imperversare nel festival estivo che fra pochi giorni comincia in tutta Europa (uno solo, lungo un paio di mesi, spezzettato in tante piccole rassegne nelle più disparate città: ma sempre ripetendo lo stesso programma). Anche tutto quello che non c’entra con le fotocopie del real book, maledizione a chi l’ha inventato.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


ER: Cammino individuale che matura all’interno di una ricerca collettiva. Ricerca individualissima della propria identità attraverso il confronto continuo e imprescindibile. Presa di posizione e confronto politico e non solo musicale (se è musicale è politico). Scontro generazionale e fratellanza intergenerazionale nella lotta per l’affermazione delle idee. Totale condivisione con il pubblico, fisicità dell’atto performativo, senso della necessità di una musica che liberando se stessa “libera tutti”… un sacco di altra roba. Niente di quelle cose pittoresche come “jam session”, “jazz club”, “standard” e via cantando.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


ER: C’è e sempre ci sarà il musicista che si dedica con calma, serenità, impegno e allegria alla musica che ama. Nonostante sia praticamente impossibile oggi “fare parte del jazz” non essendo particolarmente allineati. Ci sono mode, ci sono maniere retrive di fare musica che si spacciano per la “novità”, per l’alternativa culturale ai prodotti preconfezionati. Maniere inventate e promosse da chi controlla entrambi i sistemi, quello “preconfezionato” e quello “alternativo”. Ma i musicisti ci sono, la musica va avanti in decine di modi diversi, secondo estetiche le più differenti che per di più tendono sempre a incontrarsi, contaminarsi, scontrarsi. L’evoluzione è la sincerità, poco importa lo stile o il genere o che altro. La sincerità è il futuro se un futuro è previsto. E l’assenza di preconcetti. E un pizzico di ironia e allegria, per la miseria. I musi lunghi hanno vita breve. Anche se per ora il mercato ce li impone e gli “intellettuali di sinistra” vanno in visibilio per l’ultima frase melanconica (piuttosto artificiosamente incomprensibile) del maudit di turno. L’evoluzione futura dipende da quanto la gente continuerà ad avere voglia di farsi prendere in giro dai padroni del vapore come dagli spacciatori delle verità musicali “alternative”.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


ER: Direi di no, caso mai ce n’è un paio che mi fanno incavolare per quanto potevano riuscire infinitamente meglio.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella chitarra e nella musica, nella cultura, nella vita?


ER: So che non ci si crede, ma la chitarra non mi ha mai interessato particolarmente. Sono arrivato alla musica non grazie alla chitarra, ma ben prima di tentare di imbracciarla. I miei eroi jazzistici, l’abbiamo accennato, non erano chitarristi. Dolphy, Monk, Lacy, alcuni europei come Breuker e Westbrook sono stati i miei ascolti iniziali e che lo voglia o no sono stati “i miei maestri”, anche se non li ho mai “studiati” (io non ho mai studiato granchè, parlando di chitarra…i libri sì, quelli tanto). Certo che, scoperto il jazz, mi sono andato a cercare i chitarristi. Certamente sbagliavo, ma non trovavo nessun chitarrista all’altezza di Coltrane. Gli unici che mi piacevano molto, ma non più di un disco, erano René Thomas e Barney Kessel. Ma non erano certo i miei “maestri”. Poi mi è capitato che nelle recensioni I critici mi hanno accostato a un sacco di chitarristi che io non ho mai sentito, a volte addirittura neppure nominare. Amo Derek Bailey, per esempio, ma fino ai 22/23 anni non l’avevo mai ascoltato e quando l’ascoltai mi annoiai a morte. Lessi il suo libro sull’improvvisazione ben prima di ascoltarlo. Mi affascinavano le sue idee, fu in qualche modo un maestro. Ma poi ci misi anni prima di apprezzare la sua musica. Altri maestri? Qualche musicista che ho avuto l’onore a il piacere di incontrare, certamente, alcuni professori all’università (al DAMS dei “tempi belli” mi sono spaccato la testa sui libri di etnomusicologia o di semiotica, per esempio), gli autori di qualche grande classico della letteratura che ogni volta che rileggo mi apre nuovi mondi di riflessione, conoscenza, divertimento, stupore.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


ER: Non saprei individuarne uno. Certamente quando verso il ’95/’96 iniziai a uscire dai patri confini e a suonare in un circuito molto “alternativo”, ma europeo, vivaddio. Debbo molto a Carlo, da questo punto di vista, con cui abbiamo suonato sempre più all’estero che in Italia (non esagero, il 90% dei concerti è all’estero). Ma anche indubitabilmente a Lol Coxhill, per esempio. Poi lasciami citare il mio rapporto con l’Argentina (la seconda patria pari merito con Inghilterra e Giappone): dal 2000 ci sono stato dieci volte e sempre per lunghe settimane. Ho un paio di situazioni musicali appassionanti laggiù, a Buenos Aires come in altre città. Credo di essere stato, per esempio uno dei due/tre europei che hanno suonato al Festival di Ushuaia. Mi ripeto sempre che nella vita si debba cercare di vivere il più possibile emozioni forti e che il viaggio e l’incontro siano la maniera più opportuna per imbattercisi.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


ER: Quelli che cercano – cercano, dico – di non rifarsi troppo a cliché, quelli che sono disposti ad affrontare avventure improbabili, quelli disposti all’incontro estemporaneo, quelli disposti per converso a provare e riprovare per mettere insieme un gruppo anche senza intravedere chissà quali tournées da affrontare. Quelli simpatici, ma non troppo invadenti, quelli che in giro ci si sta bene insieme, quelli che non chiacchierano sempre in aeroporto e in auto, quelli che fanno battute di spirito. Quelli che quando vanno in posti divertenti non si chiudono in hotel subito dopo il concerto. Quelli lì.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro? Parlaci dei tuoi impegni futuri.


ER: Dal punto di vista discografico ho ancora un paio di cose da pubblicare, due concerti, uno a Buenos Aires col mio trio latinoamericano (Rodrigo Dominguez al sax e Hernan Mandelman alla batteria) e uno al Manchester Jazz Festival con Tom Bancroft (altro mio duo stabile, assolutamente ignoto in Italia anche se fare arrivare Tom da Edimburgo costa quanto il treno per Salsomaggiore). Ho mixato tutto, bisogna solo attendere i tempi giusti per non fare uscire troppa roba contemporaneamente, mi dicono. Poi ho da sistemare il mio “solo” di chitarra basato su un repertorio che in parte è quello visibile su alcuni video (un po’ troppo amatoriali, ahimé) sul mio canale youtube. Vorrei incrementare i miei concerti in solo, una dimensione molto stimolante e divertente, per me e – pare – per il pubblico. Poi durante l’estate bisogna finire un disco a Lvov, in Ucraina, con Yuriy Yaremchuk, in vista anche di un po’ di concerti in autunno dalle sue parti. Poi con Carlo, a parte la ripresa dei concerti in duo da Monteroduni a Aalborg, mi piacerebbe ridiscutere l’idea del quartetto con Gualandris al tuba e Bertoli alla batteria, quello nato per partecipare al festival di Tunisi un paio di anni fa. secondo me un quartetto potente e molto funzionante anche dal punto di vista scenico. Speriamo bene.