Foto: Roberto Panucci
L’odissea jazz di Federica Zammarchi.
Curioso affare, la Genetica applicata… Non vorremmo azzardare che il “transgender” sia di moda né tantomeno una novità, non solo perché saremmo in tragico ritardo a dirlo, ma anche perché l’esigenza della trasformazione e della dis-identità si perde forse nelle notti del tempo, e si stenta ormai davvero a riconoscere i tratti dell’autentica diversità… Figurarsi poi in un settore in continua ebollizione quale quello del jazz e della derivante fusion, già così mixati e d’incerta identità alle radici. Tornando poi a parlare di “reimagining del pop”, c’è un fenomeno che sta segnando i nostri panorami con un’identità forte e in crescendo: dalla genetica complessa (lontani cromosomi veneto-elvetici – così almeno la raccontava il De Bello Gallico – natalità toscana e petrarchesco sangue nelle vene fino alla stagionatura nel terreno di coltura della scena romana (non certo carente in enzimi e fermenti), Federica Zammarchi alla sua seconda esperienza discografica sceglie di reinterpretare un astuto e carismatico Maestro del transgender, sfidando l’immaginario universale con un arsenale tecnico e culturale che, come rivelerà quest’intervista, non ha nulla di approssimativo, tanto meno aperto a diffidenze preconcette una volta presa confidenza con questo abbordabile quanto inaspettato personaggio. Una giornata in sua compagnia è certo una completa discesa in campo nelle incombenze del musicista, dalla preparazione domestica del lavoro, alle ore presso la scuola di jazz tra lezioni e sessioni d’esame, scrittura, sala d’incisione, set di palcoscenico, non mancando di aggiornare le (spesso inevitabili) piattaforme di rappresentazione e contatto web. Ma ciò che emerge, e presto, dalla conversazione è non solo la vocazione al canto, ma l’inusuale preparazione storica e la sconcertante competenza tecnica (che ne fa un’indipendente macchina produttiva a tutto campo) e su cui, capita l’antifona, non ci siamo certo peritati di sfidarla.
Gli intervistatori si ritengano avvertiti: con Fede-Z, accorti e stiano al passo.
Jazz Convention: Abbiamo apprezzato insieme la gestazione ed il backstage di questo Tuo ultimo lavoro. Molto si è detto a proposito degli influssi, da Norma Winstone all’ Esbjorn Svensson trio, e l’accostamento ex equo a grandi incisioni di grandi solisti americani e niente meno che all’aristocratico decano del free europeo, Alexander von Schlippenbach….Magari troppo ?
Federica Zammarchi: Non ho il controllo di tutto ciò che può essere detto o attribuito al mio lavoro… magari “altri” tireranno in ballo una tale cantante o un tale stile, e si andrà costituendo un certo background… Io ho cercato di confrontarmi con questi modelli con modestia e rispetto… certamente anche il semplice proporsi su uno standard, ad esempio di Duke Ellington, può essere sempre visto come un passo ambizioso… Non so poi degli accostamenti del mio disco ad altri grandi, recenti incisioni, certo mi onora molto… ma un modello di cui posso ribadire l’ispirazione è certo l’E.S.T. del grande Esbjorn Svensson più per una questione di ascolto mio personale e per un certo gusto nel fondere insieme strutture jazzistiche ed andamenti/arrangiamenti rock.
JC: Gradiremmo un parere sui riscontri “concreti” nella Tua attività, insomma la Tua esperienza del “mestiere dell’artista”.
FZ: A tutti noi è evidente un andamento in flessione di un certo “consumo” della musica, in forma sia di disco che di concerti. D’altra parte, siamo tutti testimoni di come certi media, mi riferisco soprattutto a determinati format televisivi, operino nel condurre al successo un determinato tipo di personaggio o musicalità… Però osservo anche l’impegno di molti artisti a portare avanti nuove iniziative e formule. Quanto al “mestiere” dell’artista, posso dire che pur confermando pienamente come tutto l’impegno che si possa profondere comporti sempre tutta una massa di lavoro (prove, organizzazione etc.) che non trova retribuzione, prescindendo dal fatto che non vi è certezza o controllo dei reali guadagni – è però fuor di dubbio che si tratti anche di un mestiere che a differenza di altri più, con rispetto, “ordinari” non t’impone le restrizioni di una certa routine, ma soprattutto ti permette sempre di vivere in rapporto a ciò che più profondamente ami.
JC: C’è un Tuo impegno non parallelo, ma che anzi conferisce ulteriori spessori alla tua attività: l’insegnamento del canto.
FZ: Insegnare nasce, per tutti i musicisti, come una necessità, una fonte di reddito un po’ più stabile che non la sola attività concertistica. Poi accade che si trasformi in una passione o che rimanga un ripiego. Nel mio caso “è” diventata una passione, io amo insegnare ed essere testimone dei progressi dei miei allievi è sempre una grande soddisfazione. Non insegno solo canto, ma armonia, teoria ed arrangiamento (preparazione agli esami in conservatorio ecc) e cerco sempre di preparare i cantanti che studiano con me come musicisti a 360 gradi, che non si limitino ad avere una bella voce ma che siano in grado di relazionarsi con gli altri, di dirigere una band, di comportarsi da strumentisti. E’ una specie di mia battaglia personale per la ri-nobilitazione della voce a strumento, per l’evoluzione del cantante…
JC: Abbiamo osservato che, a parte quest’ultima incisione, porti avanti un gradevole repertorio con il gruppo “Stand-Hards!”, apparentemente disimpegnato ma che pesca o si rifà ad una brillante tradizione storica del jazz : con che spirito abbordi questo materiale?
FZ: Innanzitutto è materiale per la maggior parte originale, nato da particolari momenti in cui mi è casualmente capitato di scrivere in uno stile “antico”, se così si può dire. La cosa è stata sviluppata insieme a Giorgio Cùscito, grande pianista romano che conosce a menadito la tradizione jazzistica ed è un caro amico. Insieme a lui, Fabrizio Montemarano al contrabbasso e Giuseppe D’Alessandro alla batteria, abbiamo messo su un repertorio composto da brani miei e di Giorgio ed integrato da una selezione di opere poco conosciute della tradizione (di Mary Lou Williams ed altri) ed infine è stato impreziosito dalla presenza di Luca Velotti al sax ed al clarinetto. I brani non sono poi così “disimpegnati”, almeno non dal punto di vista musicale: sono ironici nel testo, come “The Wedding Singer” che parla dell’esperienza di ogni musicista italiano che per forza di cose si è trovato a suonare alle cerimonie, o “Every Welding You Made” che racconta di un chitarrista e della sua tendenza a passare il tempo facendo saldature sullo strumento… Sono storie divertenti, ma scritte su brani piuttosto articolati ed impegnativi. Non mi sono mai posta il problema di “abbordare” un repertorio diverso dal solito, apprezzo la tradizione, i grandi classici e li canto sempre con piacere, quindi non mi sembra che si tratti di un progetto così atipico per me. Semplicemente è una della tante cose che amo fare.
JC: Conversando con te ci si ritrova ad imbatterci nell’elemento di maggior centralità della tua attività e del tuo sentire: lo Scrivere.
FZ: Fin da quando ho iniziato a cantare ho sempre voluto scrivere musica originale, brani miei. Ogni volta che ci provavo però quello che avevo in testa non coincideva con la mia allora scarsa competenza su uno strumento (la chitarra, in quel caso). I soliti accordi “da spiaggia” non bastavano ma non sapevo dare un nome a quello che immaginavo, né tanto meno riprodurlo. Ho cominciato a studiare musica per questo, e ad un certo punto finalmente sono incappata in quell’armonia che mi suonava in testa, riuscendo finalmente a capire che cos’era. Erano accordi alterati, ricchi di note (senza scendere in dettagli troppo tecnici) che sono tipici del jazz, soprattutto di quello europeo contemporaneo. Finalmente ho iniziato a scrivere e non ho più smesso. Quando penso al mio lavoro, mi vedo come musicista, non come cantante. Quello che amo fare è cantare quello che scrivo, arrangiare, dare un ruolo preciso a tutti gli strumenti, scrivere per sassofoni, archi…mi piace raccontare storie, orchestrandone tutta l’esecuzione.
JC: Proviamo a risolvere una “vexata quaestio” personale ma non troppo, ossia il Tuo modo d’intendere l’esperienza del canto, e attraverso quale percorso sia avvenuta l’evoluzione della Tua morfologia vocale.
FZ: All’inizio del mio percorso come cantante avevo un’emissione molto potente e molto poco tecnica. Imitavo Janis Joplin, i Led Zeppelin…L’incontro con il jazz e con il conseguente studio sullo strumento-voce mi ha dato non soltanto modo di controllare il suono, ma di sceglierne una gamma, di usare registri diversi, di alleggerire certe esagerazioni. Ho scoperto modelli diversi, oltre alle solite grandi del passato (Ella Fitzgerald, Carmen Mc Rae…) ho ascoltato ed amato Norma Winstone e il suo meraviglioso registro di testa (strumentale e comunicativo), recentemente Gretchen Parlato e il suo suono elegante e raffinatissimo. Nel mio primo disco in effetti ho preparato con scrupolo il tipo di vocalità da usare, perdendo forse qualcosa in interpretazione. In questo nuovo lavoro mi sono invece trovata ad affrontare un problema diverso, ovvero recuperare quello che avevo perso con lo studio degli anni passati: la potenza, la voce naturale, l’intenzione. Ho cercato nuove fonti d’ispirazione, facendomi dare consigli sulla tecnica vocale pop/rock dei giorni nostri (il tanto discusso Voicecraft) per poter lasciare da parte tutta una serie di schematismi e pensare soltanto ad immedesimarmi nei testi. Tecnicamente parlando, ho utilizzato di più il registro naturale (o “di petto”) ed una emissione più potente. Questo per riassumere senza scendere in dettagli la diversa scelta tecnica, per quanto è possibile controllarla. Infatti, una voce ha alcune caratteristiche su cui non si puo’ intervenire più di tanto, soprattutto a livello timbrico, che dipendono dalla conformazione fisica dello strumento (laringe/ossa della testa ecc). In ogni caso scoprire (o riscoprire dopo tanto tempo) questo diverso tipo di emissione è stato molto divertente. Mi sono ricordata che cantare “rock” è faticosissimo…
JC: Magari non potremmo attribuire uno specifico “tocco femminile” a questo Tuo lavoro, ma quanto giudichi importante in base alla Tua osservazione l’apporto della creatività al femminile nel mondo della musica e del jazz in particolare?
FZ: Le donne del jazz hanno dato un contributo fondamentale, e spesso (soprattutto in passato) poco riconosciuto. Ho scritto un’intera tesi di laurea sull’argomento qualche anno fa. Mary Lou Williams ha arrangiato una buona parte del repertorio dell’orchestra di Ellington rimanendo sempre nell’ombra oltre ad aver prodotto centinaia di bellissimi brani ed opere complete. Il primo disco che la storiografia musicale ha considerato “jazz” usci’ per la Columbia Records nel 1923: “Down Hearted Blues”, cantato da Bessie Smith, che vendette oltre 750.000 copie nei primi sei mesi (un record per l’epoca), e che porta, oltretutto, la firma di due donne, la cantante e songwriter Alberta Hunter e la pianista, songwriter e bandleader Lovie Austin. C’erano donne nelle orchestre: Melba Liston era trombonista nella band di Gerald Wilson, e poi nella Dizzy Gillespie’s big band (insieme a John Coltrane) era anche compositrice ed arrangiatrice. Potrei elencarne decine ma servirebbe soltanto ad evidenziare che non è la storia ad aver penalizzato le donne (che pur con una certa fatica hanno sempre preso parte alla produzione ed alla creazione del jazz), bensì la storiografia che si è “dimenticata” di dare loro il meritato valore. Essere una donna in questo ambiente ancora oggi è difficile, devi continuamente dimostrare qualcosa. Essere una cantante è ancora più dura (Kenny Werner nel suo saggio “Effortless Mastery” dice che “oggigiorno gli strumentisti sono così preoccupati dal loro prossimo “solo” che non hanno nessun interesse in chi canta”). Devo dire che per me le cose sono state abbastanza semplici, i musicisti con cui amo lavorare per mia fortuna apprezzano le mie idee musicali e mi stimano, almeno quanto io stimo loro. Anni fa durante uno scambio di e-mail un’altra grande donna del jazz (che io considero il mio modello di riferimento), Carla Bley, mi scrisse “Posso solo suggerirti che, anche se può richiedere tempo, i migliori musicisti hanno, nella mia esperienza, un atteggiamento aperto nei confronti di qualsiasi situazione lavorativa, in misura proporzionale alla qualità della musica proposta. Sono i musicisti meno validi che continuano ad avere pregiudizi e che non sono in grado di relazionarsi a situazioni musicali alle quali non sono abituati”. A distanza di tempo posso solo riconoscere che aveva ragione. Non so quanto la mia “femminilità” intervenga nel mio mondo musicale. Magari si nota nel mio dare così tanta importanza al testo, ai temi trattati…ma conosco uomini che fanno lo stesso e conosco donne che non lo fanno per niente. Io sono soltanto una delle tante musiciste che lavorano nel settore e non posso certo dire di avere una qualche influenza. Sicuramente alcune autrici/interpreti del passato (e del presente) hanno influenzato me, ed il fatto che fossero donne non è un dettaglio poco rilevante.
JC: Potrebbe accadere, ma non è certo la prima volta, che l’ambizione di abbordare un modello di tale statura (Bowie) possa essere visto come un atto di presunzione. Vorremmo rivoltare il concetto e invece vedervi, considerato l’impegno da te investito in prima persona ma anche dei tuoi sidemen, piuttosto un forte elemento di fondo: l’orgoglio.
FZ: Tu mi parli di orgoglio, e sicuramente sono orgogliosa di questo lavoro e di come è stato realizzato, sotto tutti i punti di vista. Però non è il primo sentimento che suscita in me, piuttosto posso parlare d’amore, per il repertorio scelto, per il periodo storico, per il personaggio e soprattutto per questo meraviglioso gruppo di musicisti e di amici. Non capita spesso che le persone che coinvolgi in un progetto musicale ne siano così entusiaste. Ancora meno capita quando si tratta del progetto di un cantante. Come ho detto, spesso sono stata fortunata. Il grande feeling che si è creato sia in registrazione che in prova che nei live ne è una conseguenza e se ne è uscito qualcosa di buono lo devo a questo. Quanto all’orgoglio… se ne sono orgogliosa? Sì, direi di sì… Se invece la scelta del Duca Bianco può essere considerata presuntuosa, beh, mi dispiace. Non avevo intenzione di confrontarmi con un grande modello, ma con un modello che amavo ed al quale sono legata da ragioni affettive. Credo non si possa nemmeno parlare di “confronto” ma piuttosto di “omaggio” dato che il materiale musicale è stato completamente riletto in altra chiave. Mi piace pensare che Bowie lo apprezzerebbe…
JC: Appare chiaro a questo punto il valore del tuo gruppo, dalla cui amalgama dipende, come ci dicevi, la speciale riuscita dell’album. Cosa ha portato a questi incontri e alla loro selezione?
FZ: Il tutto è nato qualche anno fa ed inizialmente ho provato brano per brano, arrangiamento per arrangiamento, inserendoli in serate live con i gruppi più diversi, facendo continui cambiamenti per trovare il giusto balance. Enrico Zanisi (piano) è stato coinvolto fin dal principio ed è l’anima più “jazz” del progetto, ma si è dimostrato (senza alcuna sorpresa da parte mia) in grado di adattarsi perfettamente alla nuova direzione che infine ho scelto, più rock. Lo conosco da quando aveva 15 anni e tutte le volte che è stato possibile ho suonato con lui, è un vero talento ed un grande professionista, oltre che un ragazzo adorabile, e so che ne sentiremo molto parlare e se lo merita sotto ogni punto di vista. Si è lanciato con un entusiasmo incredibile su un repertorio che non conosceva tirandone fuori il meglio. Ha l’incredibile capacità di entrare completamente in un brano, come se mi leggesse nel pensiero. Una volta capito che tipo di disco volevo fare ho subito coinvolto Marco Siniscalco, uno dei bassisti più versatili che abbia mai conosciuto (suona benissimo qualsiasi genere) ed anche uno dei musicisti che più stimo. Altro grande appassionato di Bowie ha messo mano con la solita grande competenza sugli arrangiamenti, dando una svolta decisiva al sound. Marco è una garanzia, di una professionalità indiscussa e non avrei potuto chiedere di meglio né dal punto di vista musicale né da quello umano. Emanuele Smimmo invece non lo conoscevo finché non l’ho coinvolto nel progetto e devo dire che è successo su consiglio di una grande cantante e cara amica, Susanna Stivali, che ancora ringrazio per questo. Emanuele è esattamente quello che serviva, un batterista poliedrico, dalla tecnica impeccabile e dal grande gusto, competente sui generi più diversi, e soprattutto è diventato un carissimo amico. E una di quelle rare persone di cui in 5 minuti capisci il valore enorme. Non riesco più a suonare senza di lui. Ultimo ad arrivare ma non in ordine di importanza Antonio Iasevoli ha dato un contributo fondamentale al suono d’insieme. E’ un chitarrista straordinario, che riesce con estrema facilità a creare un’atmosfera, a far salire la tensione su un brano, a differenziare un momento musicale. Che altro devo dire… posso solo ripetere che sono stata molto fortunata.
JC: L’opera si chiama Jazz Oddity – in che cosa consiste la vostra diversità, eccentricità, insomma la vostra Oddity?
FZ: Jazz Oddity, ovviamente, è un gioco di parole derivato dal famosissimo brano Space Oddity. Certo è che nel panorama jazzistico questa “è” una stranezza, una “Oddity”. Innanzitutto la scelta del repertorio è decisamente inusuale (anche se già illustri nomi si sono cimentati con materiale pop-rock). Poi la conduzione dei brani, che danno molta importanza alla scrittura, come raramente accade: la vera “stranezza” però credo che consista nel non aver pensato ad un genere, ad uno stile, ad un modello. Abbiamo solo suonato cercando di far uscire una certa “magia”, indipendentemente dal fatto che fosse jazz, rock, pop o altro. L’unione di musicisti così “border-line”, ovvero ai limiti del jazz, ha creato questo particolare sound. Con una altro gruppo sarebbe stato completamente diverso e probabilmente più imbrigliato in una qualche definizione di genere. Credo di poter concludere dicendo che la nostra Oddity consista più che altro nell’aver voluto non soggiacere a uno stilema.