Pescara, il vero Jazz sulle sponde dell’Adriatico

Foto: Gino Fortunato





Pescara, il vero Jazz sulle sponde dell’Adriatico.

Pescara, Teatro-Monumento Gabriele D’Annunzio. 15/17.7.2011.


L’anticipo del quarantesimo anniversario di Pescara jazz che si terrà nel 2012, ha offerto, Lou Reed a parte (collocato la settimana dopo il “vero” festival), uno spaccato di jazz autentico e passionale. Una costante, del resto, che caratterizza la più longeva manifestazione italiana che si tiene da sempre sulle sponde dell’Adriatico.


Tre serate, dal 15 al 17 luglio al Teatro-Monumento Gabriele D’Annunzio, come sempre organizzate dall’Ente Manifestazione Pescaresi sotto l’irrinunciabile coordinamento artistico di Lucio Fumo, ha come tutte le rassegne nazionali risentito della recessione economica, senza però scadere in termini di qualità. Come accennato, è inutile affrontare il discorso di Lou Reed, inserito il 20 luglio come spesso è avvenuto in passato a Pescara per compiacere i rocker nostalgici.


L’apertura del festival è stata affidata a Cassandra Wilson. Elegante e scenica. Felina. La voce morbida, flessibile, sofisticata, dai sostenuti accenti gravi, così lontana e così vicina al Jazz, da renderla un’interprete sublime che appassiona tanto i puristi quanto gli amanti di altri generi. L’africanismo aleggia e sul palco abruzzese il suo incedere vocale ha attinto nella matrice blues per stagliarsi in una dimensione sperimentale che rimandato a Miles Davis, mantenendosi però sempre sui binari acustici, rimarcati dal contrabbasso dell’inseparabile Lonnie Plaxico e dall’armonica di Gregorie Maret. Cassandra Wilson, quantomeno per l’originalità e la creatività, avrebbe meritato la seconda parte della serata che invece è stata assegnata ai Manhattan Transfer. Immutabili. Come monoliti. Non per questo non bravissimi e perfetti. Qualcuno obietterebbe: “troppo perfetti”. Talmente bravi da aver creato una macchina insostituibile assemblata dai suoi quattro componenti: l’immarcescibile leader Tim Hauser, il sensuale crooner Alan Paul, la fluttuante Cheryl Bentyne e la “garanzia jazz” Janis Siegel. Proprio la Siegel ha offerto l’unica veramente convincente esibizione nel siparietto “in solo” che ormai da anni i quattro componenti si ritagliano durante i concerti. Tuttavia, rispetto al recente passato, il quartetto è sembrato andare più d’accordo, quasi a smentire le insistenti voci che li vogliono “insieme per forza”, giusto per far fronte ai problemi fiscali avuti ormai parecchio tempo fa in America, che si sa, non è molto tenera sul discorso “tasse”. Per il resto, il commento sulla loro esibizione potrebbe essere lo stesso di innumerevoli altre performance. La “macchina” Manhattan Transfer è perfetta e persino convincente solo se i suoi componenti rimangono insieme. E “perfetto”, il loro concerto, lo è sempre. Soprattutto per coloro che li ascoltassero per la prima volta.


Chick Corea, con il suo “Return to forever” alla quarta versione, è andato oltre il “giurassico”, dimostrando che la sua musica è ancora capace di suscitare quelle emozioni energetiche come negli anni ’70. La nuovissima versione della formazione guidata da Corea, la serata successiva, in un certo qual modo solo parzialmente si riaggancia al discorso fatto per i Manhattan Transfer circa l'”immutabilità”. A differenza del quartetto vocale newyorkese, però, i “Return” (Chick Corea, Stanley Clarke, Frank Gambale, Lenny White e Jean-Luc Ponty) hanno dalla loro la forza della creatività che riesce a renderli originali anche se il repertorio è fondamentalmente sempre quello degli anni ’70-’80. Uno Stanley Clarke particolarmente in forma ha regalato momenti di grande virtuosismo e intensità principalmente al contrabbasso, andando a pescare anche nel suo lontano album “Scool days”.


Il pianista Cyrus Chestnut, alla testa del trio formato da Darryl Hall al contrabbasso e da Esteve Pi alla batteria, ha dimostrato come il virtuosismo possa essere anche veicolo di intensità emozionale. Sulla scia dei grandi pianisti moderni, Chestnut oggi coniuga un linguaggio fresco, attento alla tradizione e allo swing. Infine un breve “amarcord” prima del finale della Lincoln Center Orchestra di Wynton Marsalis, in cui il trombettista di New Orleans ha duettato con il nostro Francesco Cafiso, memore dello straordinario esordio del giovane sassofonista avvenuto 10 anni prima sullo stesso palco. All’epoca Cafiso esordì tredicenne al fianco di Franco D’Andrea e fu attentamente ascoltato da Marsalis che rimase folgorato dal contraltista in erba, tanto che lo volle con sé negli Stati Uniti. Fu l’incontro della vita per Cafiso che da allora decollò, fino ad arrivare ad esibirsi di fronte al Presidente Obama il giorno della sua elezione. Dopo la parentesi Hard bop di ottima levatura (neanche il caso di sottolinearlo… ma quella versione di “Cherokee” è da manuale) il quintetto Marsalis/Cafiso con la ritmica dell’orchestra composta da Dan Nimmer al piano, Carlos Henriquez al basso e Al Jackson alla batteria. L’orchestra si conferma come una delle più importanti attive sulla scena. Meno cerebrale rispetto ad opere più ambiziose (vedi “Blood on the field”) Marsalis ha optato sul terreno sicuro del blues, delle ballad, degli standard e di alcuni original, strizzando l’occhio al finalino in stile Dixieland. Per l’occasione la Lincoln Orchestra si è avvalsa della straordinaria partecipazione di Cyrus Chestnut che si è alternato ripetutamente con Nimmer, fornendo uno spessore incantevole al sound collettivo.