Bari in Jazz 2011: Intervista a Roberto Ottaviano.

Foto: Fabio Ciminiera





Bari in Jazz 2011: Intervista a Roberto Ottaviano.


Da sempre promotore di sinergie artistiche e musicali nel suo territorio, il sassofonista Roberto Ottaviano ha confermato anche quest’anno le indubbie qualità della sua creatura più importante: il Bari in Jazz. Un’edizione che lo ha visto protagonista sia nelle abili vesti di direttore artistico, che in quelle di musicista. Il festival, la sua musica e l’idea alla base di un evento musicale, sono stati i temi di questa breve intervista.



Jazz Convention: In quest’ultima edizione del Bari in Jazz hai presentato un progetto originale di tributo a Miles Davis, che ti ha visto alla guida della Apulian Orchestra con il trombettista Ralph Alessi in qualità di ospite. Puoi parlarci di com’è nato questo ensemble e di come è stata sviluppata la musica per questo omaggio a Davis?


Roberto Ottaviano: È un organico nato questo inverno intorno alla figura di Paolo Fresu. Abbiamo avuto la possibilità di ospitarlo a Bari e, piuttosto che proporgli uno dei progetti per i quali è solitamente in tour, ho preferito coinvolgerlo in una dimensione che fosse quella di solista all’interno di una piccola compagine orchestrale, eseguendo nuovi arrangiamenti di alcuni dei suoi brani. E’ nato tutto da lì. Tra la mia attività di musicista e quella di docente in Conservatorio, ritengo oramai una missione quella di creare opportunità che mettano insieme le migliori espressioni musicali del nostro territorio. Il festival Bari in Jazz mi ha quindi offerto una seconda possibilità di lavorare con un ensemble così esteso, portandomi alla ricerca di musicisti che fossero compatibili con questo nuovo tipo di progetto, incentrato sul Miles elettrico. Quello di cui parliamo è un periodo a me particolarmente caro perché è quello che ha visto nascere il mio interesse per il jazz. Provenendo dal rock, all’epoca mi sembrò uno sbocco naturale quello di entrare nel jazz attraverso gli esperimenti elettrici che Davis aveva svolto tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 con album quali Bitches Brew, On the Corner, Big Fun ed altri. Il trombettista Ralph Alessi, ha portato in questo progetto un solismo e una personalità che ben si sono integrati con il resto dell’orchestra: tutte peculiarità che hanno funzionato particolarmente e che hanno portato uno slancio positivo nella musica.



JC: Intendi mantenere e sviluppare il progetto della Apulian Orchestra?


RO: Mi piacerebbe moltissimo. Spero si riescano a creare i presupposti giusti per sostenerla, poiché oggi è già difficile mantenere un piccolo gruppo, proporlo e dargli la possibilità di esibirsi. Una formazione così estesa non è facile da gestire. Molti dei suoi componenti inoltre, sono leader attivi ed impegnati con proprie formazioni. Tuttavia è un’idea che mi piacerebbe tanto sia per l’aspetto artistico e musicale, quanto per l’aspetto umano che si instaurerebbe tra i musicisti. Sarebbe un po’ come riunire una di quelle grandi famiglie africane sparse in numerosi villaggi.



JC: Di cui in qualche modo sei un po’ il patriarca…


RO: (ride) Non mi ritengo tale, se non per ragioni anagrafiche. Semplicemente, essendo il più anziano tra loro, cerco di svolgere un ruolo di coordinatore tra i musicisti e di metterli insieme in maniera compatibile ed organica.



JC: Hai avuto modo di lamentare una “riconfigurazione della geografia culturale” avvenuta nella città di Bari e nella regione Puglia, la quale ha fatto sì che alcuni dei progetti in serbo per il Bari in Jazz non si realizzassero. Che cosa avresti voluto per questa edizione del festival?


RO: Rendere omaggio a Miles significava per me investire qualcosa in più, non soltanto in termini finanziari, ma anche in termini di energie. Significava coinvolgere alcuni di quei musicisti ed ex collaboratori di Davis, che hanno partecipato e contribuito a rendere grande la sua musica: questa era l’aspirazione nei miei piani iniziali. Purtroppo oggi devo dire che, iniziando dalla mancanza di adeguati supporti finanziari alla cultura, ho riscontrato una parcellizzazione delle energie, che porta a disperdere gli intenti facendoli restare solo sulla carta o nelle dichiarazioni di molti amministratori. La loro disponibilità a voler aderire e sostenere dei progetti, si traduce spesso nella latitanza degli stessi o, in maniera più subliminale e subdola, a mutarla in suggerimenti di strategie alternative, come se dall’altra parte ci fossero delle competenze musicali che obiettivamente, lavorando ormai da più di trent’anni nel campo della musica, non riconosco. Credo che sia un po’ come violare il lavoro che così faticosamente portiamo avanti da tempo. È su questo che vorrei sollevare l’attenzione: lasciamo fare le cose a chi sa farle ed ognuno porti, in coerenza con il proprio ruolo, un personale contributo, affinché questa iniziativa cresca e si sviluppi. Tra l’altro, credo che siano stati la città, gli artisti e i molti turisti circuitati attorno al festival, a dare il giusto responso su quella che è stata la bontà delle operazioni condotte, attraverso complimenti a tutta l’organizzazione del festival.



JC: Se dovessi fare un bilancio di quest’ultima edizione del Bari in Jazz?


RO: Ritengo che il bilancio sia molto positivo. Abbiamo avuto molti osservatori stranieri e siamo riusciti a mantenere il festival ancora saldo su alcune delle sue peculiarità, tra le quali quella di essere itinerante all’interno della città. Una modalità che dà respiro alla musica ponendola in relazione con importanti spazi architettonici. Ora, l’invito che voglio fare all’amministrazione e agli stessi organizzatori del festival, è quello di metterci al lavoro fin da subito per la prossima edizione. Non possiamo più pensare alla cultura come a un “last minute” in cui ci inventiamo le cose all’ultimo minuto, bensì come a qualcosa da vivere con entusiasmo e dedizione continui.