Foto: Gregoire Alexandre
Edouard Ferlet. La libertà della composizione.
Pianista, compositore, direttore artistico dell’etichetta Mélisse Music. Edouard Ferlet esemplifica il percorso del musicista creativo nel jazz di oggi, che spesso abbiamo “indagato” su Jazz Convention: un musicista per forza di cose attento ai diversi aspetti della musica e della produzione artistica per avere la possibilità di muoversi in libertà, secondo le proprie intenzioni espressive. In occasione delle recenti uscite della Mélisse Music – il suo Filigrane, Pour del trio guidato da Jean Philippe Vriet e Dreamseekers di Frédéric Norel – abbiamo avuto modo di chiacchierare con lui.
Jazz Convention: Qual’è stata la spinta per dare vita a Mélisse Music?
Edouard Ferlet: Diventare produttore musicale è sempre stato uno dei miei sogni: mi piace davvero l’attività di accompagnamento, l’idea di ascoltare e di federare le energie. Già altri membri della mia famiglia avevano fatto questo lavoro e così ho potuto comprendere meglio quale sia il ruolo del produttore nello sviluppo di un progetto artistico. Nel frattempo ho studiato due anni con Jean-Christophe Vidal per essere abilitato ad esercitare il coaching: il suo metodo mi ha permesso di avere degli strumenti utili per trasformare i problemi in progetti. La sua tecnica si basa sul fatto che ogni problema viene ridotto ad un problema di comunicazione. Il nome dell’etichetta, poi, ha un suono affascinante: nella parola Mélisse ne sono contenute anche altre… miscela, melodia, ci sono i nomi delle note. Inoltre, mi piace il fatto che si tratti di una pianta medicinale.
JC: Come viene organizzato il lavoro dell’etichetta? Come scegliete gli artisti e le direzioni musicali?
EF: Il lavoro dell’etichetta è cresciuto molto negli ultimi anni. Oggi lavoriamo anche sulla produzione di eventi dal vivo, sia concerti che spettacoli teatrali, attività culturali, organizzazione di rassegne e gestione tecnica degli spettacoli. Per quanto riguarda la scelta degli artisti, l’unico criterio è che gli artisti siano creativi e rappresentino la loro espressività attraverso un progetto contemporaneo e autentico.
JC: Passiamo alla tua musica. La prima cosa che colpisce l’attenzione è la miscela di libertà e composizione. Qual’è la concezione generale della tua musica?
EF: Cerco di trovare la mia strada attraverso la mia espressione personale, cerco di sentirmi autentico nella musica che compongo e cerco, naturalmente, di essere coerente con quello che propongo.
JC: In particolare, per quanto riguarda la composizione, si sente una presenza forte di riferimenti classici. Si tratta di un impressione giusta? E qual è, nel caso, il tuo modo di utilizzare le radici classiche?
EF: La mia formazione jazzistica l’ho fatta alla Berklee e le mie origini musicali sono nel jazz americano, ma, nel corso degli anni, penso di aver trovato una mia dimensione decisamente più europea. Abbiamo ancora tesori da scoprire nelle opere dei compositori europei e mi rendo conto, sempre più, di trarre ispirazione dalla loro musica.
JC: Anche i musicisti americani con cui hai studiato a Berklee hanno, nelle loro storie musicali, un rapporto preciso e forte con la composizione. Quanto ti hanno influenzato questi incontri?
EF: La composizione è il modo migliore per trovare la propria strada, perché costringe a mettersi in contatto con sé stessi davanti al foglio bianco. L’ideale è ritrovare la stessa sensazione davanti dello strumento, quando si improvvisa Per ritrovare quel senso di freschezza, penso sempre ai primi momenti in cui mi sono seduto al pianoforte e ho scoperto quei suoni, allora a me del tutto sconosciuti.
JC: Dall’altra parte c’è un atteggiamento molto moderno per quanto riguarda l’interplay e la libertà armonica.
EF: La composizione e l’interpretazione sono spesso in conflitto tra loro: quando la composizione è troppo forte può rendere povero e meno interessante il momento dell’improvvisazione. Cerco sempre di trovare un equilibrio per fare in modo da non lasciar percepire il confine tra i passaggi scritti e quelli improvvisati. Dopo un concerto, quando il pubblico non ha notato la transizione, allora la scommessa è vinta.
JC: In Filigrane hai utilizzato un quartetto senza contrabbasso. Penso che, in una situazione simile, la gestione dello spazio diventi uno dei compiti più importanti per il compositore.
EF: In ciascuno dei miei nuovi progetti ho cercato di lavorare in modo diverso. In effetti con Filigrane ho voluto dare più spazio alla respirazione di suono e silenzio. L’assenza del contrabbasso offre anche maggiore spazio per l’ascolto e l’interazione. Sui miei due ultimi progetti che ho voluto viaggiare all interno della musica per dare un’atmosfera particolare ad ogni composizione e allontanarmi da un colore strettamente jazzistico.
JC: In generale, in molti brani c’è anche un’idea orchestrale e c’e anche una scelta particolare per quanto riguarda gli strumenti.
EF: Mi piace scompigliare le abitudini orchestrali e le formazioni consuete: il gruppo così è “provocato” a cercare un suono nuovo ed è obbligato a porsi nuove domande circa gli arrangiamenti e l’orchestrazione. In particolare mi aiuta ad avere una freschezza nella scrittura e mi spinge a provare nuove tecniche di composizione e di interazione tra i musicisti.
JC: Il trio di Jean-Philippe Vriet – pur essendo canonico nella sua formazione pianoforte, contrabbasso e batteria – mette in evidenza una visione orizzontale e condivisa della musica.
EF: Bisognava in qualche maniera distinguersi nell’ambito di una forma così fortemente caratterizzata nella storia del jazz. Ognuno di noi ha una funzione molteplice nel trio, ruoli coloristici, ritmici, melodici, ma mai quella che ci si aspetta.
JC: Nella tua biografia ho letto delle tue collaborazioni con cantanti provenienti da diversi stili musicali
EF: Per me è stata una fortuna lavorare con cantanti provenienti da contesti diversi pur mantenendo il mio stile personale. Mi hanno dato fiducia e mi hanno fatto entrare nel loro universo, pur avendo il massimo rispetto per le mie caratteristiche. Amo accompagnare i cantanti e mi metto al servizio del cantante perché possa dare il meglio di sé, mantenendo però la mia personalità di musicista: è lì che avviene lo scambio. Un altro punto importante per me è quando la voce reagisce come uno strumento con la stessa libertà e la stessa interazione.
JC: Hai registrato un disco in piano solo Par tous les temps nel 2004, e, come si può seguire sul tuo sito, hai fatto anche un tour in Cina dello scorso anno. Qual è il tuo rapporto con il piano solo?
EF: È buffo: prima di registrare il disco, non amavo granché suonare in piano solo. Lavorando in profondità sul mio strumento, invece ho scoperto come invece poteva essere una tappa fondamentale per sentirmi a mio agio all’interno di un qualsiasi gruppo. Il piano solo ti dà molta fiducia. Ti permette anche di prendere il tempo per cercare nuovi colori sul proprio strumento. Ora, sto lavorando al mio secondo album in solo intorno alla musica di Johann Sebastian Bach: cerco di far confluire il mio stile compositivo all’interno dell’opera maestosa di Bach.