Markus Reuter – Todmorden 513

Markus Reuter - Todmorden 513

Hyperfunction – 003 CD 4 260139 120819 – 2011




Markus Reuter: chitarre elettriche e acustiche, sintetizzatori, organo, glockenspiel, elettroniche

Karina Bellmann: violino

Uta Maria Lempert: violino

Wiebke Schoepe: viola

Juliane Gilbert: violoncello

Ulrich Pollmann: flauti

Frieder Zimmermann: sustained guitar

Tobias Reber: elettroniche






Si fa presto a dire ambient, si fa prima a stigmatizzare con new-age (orrore!) tutta quell’elettronica ineffabile e – sulle prime – disimpegnata, per cui tutt’oggi si patiscono le derive del filone “cosmico” del Kraut-Rock, segnato nei suoi seguiti dall’impronta “d’atmosfera” palesata dalle morbide proposte anni ’90 in poi, pasticciando con filosofie e movimenti “spirituali” per lo più alla buona, quando non spudoratamente ammiccanti e commercializzati.


In realtà le cifre formative del nostro Autore pescano nell’area più curiosa (e, con prudenza, più “genuina”) di quel peculiare filone commerciale “meditativ-Musik” che, sostanzialmente non organico da noi, nell’area germanica dai primi anni ’70 riuniva con proposte più o meno felici, tutta una produzione discografica d’ispirazione mistico-orientaleggiante che, agli albori della diffusione dell’etnico captando le seduzioni atipiche della musica indiana, non senza spruzzate d’elettronica, toccava l’acustica contaminata alla Oregon o Third Ear Band (Woodstock e dintorni avranno ben valso qualcosa). Non andrebbero peraltro ignorate, a parte l’imprinting, la lunga ala e le persistenti eco della cultura ed estetica della psichedelia, le prime strategie visionarie dell’alleanza aurea tra il grande stratega dell’innovazione Brian Eno di concerto col trans-crimsoniano Robert Fripp, che da Evening Star avrebbe generato almeno il doppio filone della sperimentazione di Eno e dei lunghi transiti dei “Soundscapes” di Fripp. Proprio quest’ultimo è peraltro un mentore non solo in spirito di Reuter, che non certo con passiva deferenza è anche l’animatore alla pari dello speciale ad energetico trio Stick Men, per due terzi crimsoniano, comprendendo niente meno che Tony Levin e Pat Mastelotto.


Insomma, spessori titolati e concreti da parte del giovane tedesco (naturalizzato Innnsbruckiano) Markus Reuter, di cui abbiamo omesso essere entusiasta ed attivo praticante delle setose sonorità della Touch-Guitar (che meriterebbe un capitolo a sé) e che alla fine di una interessante discografia ritroviamo in un progetto a sua firma e da egli stesso illustratoci:


“Todmorden 513 è la mia composizione di gran lunga più ambiziosa, e questa volta senza alcun compromesso. L’opera è stata creata utilizzando le tecniche di composizione seriale che ho scoperto da adolescente e quindi approfondito con i miei maestri Daniel Schell e Robert Fripp. La musica non è aridamente generata da un computer, ma gli interventi compositivi si sono succeduti in innumerevoli momenti del procedimento: ciò che ne risulta ha quella magia che io ricercavo, e per me suona insieme familiare e sorprendente, allo stesso momento”.


Sottilmente cangiante e di compatta eleganza il lavoro si apre nelle più dichiarate fattezze di progetto sinfonico (è già in cantiere la rappresentazione orchestrale dell’opera) che se con tratto leggero richiama le intuizioni di Feldman o le crepuscolarità di Messiaen, evoca parimenti scenari algidi e disabitati come nei neo-sinfonisti alla Vasks o Pärt. Il monolite tematico è scosso in fibrillazione per tutto il decorso delle “513 armonie e triadi poste in sequenza” secondo un design compositivo messo a punto dal giovane compositore, in cui le voci solistiche rinunciano all’identità per aggregarsi in micro-cellule melodiche, connettendosi il tutto a lunga distanza ai quadri fluidi e ai piani scorrevoli della seminale Ambient Music di Eno, che allora iniziava a profetizzare di “platee deserte”, riferibili oggi alla deriva delle coscienze del pubblico, incanalato su media solo in apparenza personalizzati ma in realtà disgreganti per l’attenzione.


Tra le rarefatte vibrazioni della chitarra e le desertiche dune dei loop, lievitano con lentezza forme prive di traumatiche rotture o polemiche lacerazioni – sessantuno minuti di ristoro per l’orecchio, che sul finale si condensano in forme cristalloidi convergenti su un fioco grido – non uscita catartica ma sosta di un ascolto temperato e rigenerante, soffio e flusso cibernetico che ancora si umanizza nel respiro di una mente ecologica.