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Slideshow. Umberto Petrin.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Umberto Petrin: Volentieri. Il nuovo cd A dawn will come nasce da alcune riflessioni fatte lo scorso anno (2010), in un periodo in cui stavo assistendo ad alcuni segnali preoccupanti che riguardavano non solo il mondo della Cultura e dell’Arte, ma anche quello di tutti i giorni. Alcuni miei amici avevano perso il lavoro, altri erano seriamente preoccupati, molti giovani non riuscivano ad inquadrare un riferimento forte. L’Europa cominciava a cedere e la crisi avvolgeva l’Italia nonostante le rassicurazioni che ci somministravano i capi della politica. Alcune etichette alle quali mi appoggiavo (prima tra tutte la Soul Note di Flavio Bonandrini, un amico che stimo molto) si arrestavano e questo mi preoccupava. Di fronte a ciò decisi che mi occorreva un’azione, sentivo la necessità di comunicare ed esprimere le idee artistiche maturate nell’ultimo periodo. Inoltre, in un periodo in cui la musica spesso è considerata una forma di intrattenimento, desideravo uscire con un disco pensato senza condizionamenti e in cui mi potessi riconoscere appieno.
JC: E quindi cosa hai fatto in concreto?
UP: Realizzai quindi una registrazione alla Casa della Musica di Genova, una specie di full immersion in cui non intendevo riascoltare nulla fino al termine della seduta, a costo poi di dover buttare tutto. Dopo circa tre ore di registrazione, nelle cui pause realizzavo piccole performance che venivano filmate e che faranno parte di un lavoro che completerò in una galleria d’Arte contemporanea, ascoltai le tracce e ne fui soddisfatto: tenni praticamente tutto, quella cosa ero io, mi riconoscevo perfettamente. In quei brani è contenuto il mio mondo, tra improvvisazione, Jazz, amore per la Poesia e per l’Arte attuale. Dopo averla inviata a Leo Feigin, ebbi da lui una risposta entusiastica a distanza di pochi giorni e quindi ecco. Sto ricevendo molti consensi da questo lavoro e questo mi incoraggia. Ho scelto questo titolo perché, come spiegavo prima, l’impulso di registrare l’album nasceva dal tentativo di uscire da un periodo difficile, di sconforto ed ho interpretato questa conferma come l’arrivo di un’alba, la fiducia nel futuro.
JC: Facendo un passo indietro, ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
UP: Ho vissuto fino ai trent’anni in un paese dell’Oltrepò Pavese, Casteggio. Mia madre aveva studiato da soprano, poi aveva lavorato molto come cantante, nel dopoguerra, in quelle orchestre in cui si suonavano le canzoni americane e il mambo, vere novità dell’epoca. Non ho un ricordo preciso della musica (forse non mi interessava neppure), però rivedo ora le pile di dischi, 33, 45 e 78 giri. Nel caseggiato c’erano molti bambini, le radio accese, si mescolavano diversi mondi. Forse più che musica c’erano suoni, tantissimi suoni. Da bambino i miei genitori mi portavano ai concerti di mio cugino (Giuseppe Aneomanti, che poi divenne anche il mio maestro di pianoforte): conservo alcuni ricordi indelebili di quei momenti.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
UP: La curiosità ed il caso. In casa avevamo i 78 giri di Benny Goodman e dischi di Duke Ellington. All’età di dodici anni iniziai a studiare pianoforte. Una sera mia madre mi disse (l’aveva letto sul giornale dei programmi) che sul terzo canale della radio avrebbero trasmesso un concerto di un pianista Jazz, Oscar Peterson, di cui lei già conosceva il valore. Mi invitò ad ascoltarlo. La radio gracchiava (il terzo canale era sempre difficile da ascoltare) ed io, con l’orecchio attaccato al piccolo altoparlante, sentii una musica nuova per me, un modo diverso di suonare il pianoforte. Il segnale era incostante, ma questo non faceva che rendere ancora più “magica” quell’esperienza. Fu l’inizio di un interesse. Non pensai mai comunque, in quegli anni, di fare il musicista di Jazz, mi interessava la Chimica, poi fui rapito dalla Poesia, dalla Letteratura, dall’Arte.
JC: E il salto di qualità?
UP: Una sera, anni dopo e per puro caso, un amico che era proprietario di una discoteca mi chiese se fossi stato in grado di assicurargli un certo numero di serate Jazz con un mio gruppo, dal momento che un amico comune gli aveva rivelato una certa mia attrazione verso quella musica. Istintivamente risposi di sì. Avevo ventiquattro anni, ero Perito Chimico, stavo per diplomarmi in Pianoforte, ma non conoscevo nessuno che suonasse Jazz, né io avevo mai affrontato seriamente l’argomento. Fu per me un impegno che mi condusse ad incontrare persone, ad evitare che il mio amico mi sparasse (era collezionista di armi), a consolidare il mio rapporto con questa musica, permettendomi inoltre di aprire un nuovo mondo espressivo che poteva essere il tramite verso la ricerca di un linguaggio personale, quello che in fondo stavo cercando.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola Jazz?
UP: Il Jazz ha sempre un significato, è un genere, si è rinsaldato all’interno dei Conservatori. Altra cosa piuttosto è l’uso che si fa di questa musica. I linguaggi artistici si cristallizzano nel momento in cui diventano materie d’insegnamento, ma gli Artisti possono riappropriarsene e dar loro nuova vita. Da un lato assistiamo al Jazz come forma d’intrattenimento (cosa che in fondo già era anche in passato, se pensiamo alle orchestre di Swing), una specie di pianobar di lusso, utile agli apparati mediatici per riempire uno spazio con un colore “un po’ diverso”, ma dall’altro è una musica che può dare una propulsione alle idee ed alle novità come nessun altro genere forse è in grado di permettere.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
UP: È proprio quello che stavo dicendo poco fa. La pratica dell’improvvisazione, la logica della sua costruzione, è un sistema che ci permette di relazionarci a tutti gli altri linguaggi artistici, anche extramusicali. E quindi di fondare una nostra struttura espressiva, che può cambiare nel tempo e seguire la nostra crescita. Attraversare i diversi stili del Jazz (ho suonato dal tradizionale alle varie ramificazioni del free, per intenderci) è stata un’esperienza fondamentale per me in questo senso.
JC: Ascoltando però attentamente i tuoi dischi, sembra che il jazz sia anche molto di più…
UP: Il Jazz è un mondo talmente ricco di sfaccettature, in cui invenzione e reminiscenza trovano il loro spazio nell’attimo presente. Per questo ho voluto approfondire le tecniche dei vari periodi, suonando nei più svariati gruppi, proprio per cercare di ottenere, in un secondo momento, un giusto distacco e poter fondere con libertà e consapevolezza i vari elementi tratti sia da autori del ‘900 a me cari – come, ad esempio, Hindemith o Webern – a peculiarità stilistiche dell’altro genere – qui vorrei citare Earl Hines, tra i pianisti che ho sempre amato, insieme a Lennie Tristano e ovviamente Thelonious Monk – ma senza insistere nell’imitazione, o nell’autocompiacimento, quanto piuttosto nell’ibridazione. Non illudiamoci: nessuno inventa nulla, ma l’Arte – e per me la musica Jazz lo è sempre stata – è il luogo della riappropriazione, talvolta anche dello smarrimento, ma proprio in quel luogo anche i contrari possono coesistere. Questi sono concetti che applico anche quando insegno, perché anche nell’insegnamento possiamo creare opere d’Arte, anzi, forse le migliori.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
UP: Non ho mai pensato al Jazz come fine a se stesso, ma come ad un linguaggio a me congeniale per esprimere ed approfondire le mie idee artistiche, peraltro divertendomi. Il Jazz può essere sempre attuale proprio per la sua malleabilità, come dicevo prima. Tuttavia credo che occorra conoscerne bene lo sviluppo nelle epoche ed essere padroni dei suoi stilemi per poter sfruttare pienamente le sue grandi potenzialità. Non sono interessato al Jazz d’imitazione, ma comprendo coloro che passano anni della propria vita cercando di raggiungere la stessa abilità del loro musicista di riferimento. Penso che tutti siamo coinvolti in questo processo, fa parte dell’apprendimento, soprattutto in questa musica. C’è chi invece diviene schiavo di questo atteggiamento e approfondisce solo una parte delle proprie capacità, mentre ne lascia altre inalterate. Si tratta comunque di una scelta, che spesso può dare anche frutti nel mondo dello spettacolo o dell’intrattenimento.
JC: E da parte tua?
UP: Da parte mia cerco invece un Suono che sia la risultante di quel complesso mondo nel quale mi muovo, fatto di musiche diverse, Novecento, arte attuale, percorsi letterari, Poesia e vissuto quotidiano. E per dar forma a tutto mi occorre il ritmo, che nel Jazz è fondamentale, e la consapevolezza che sta alla base del linguaggio dell’improvvisazione. In questo modo il Jazz diviene per me il canale per un approfondimento continuo, in funzione della conoscenza, dell’ascoltarsi e riconoscersi, del crescere nel mondo seguendo i movimenti del Pensiero e della molteplicità degli idiomi. Credo nella congiunzione tra Arte e Vita, un connubio difficile che da sempre mi affascina e, ripeto, mi diverte anche.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
UP: A questo non ho mai pensato, anche perché ci sono molteplici strade e diramazioni che possono condurre a sviluppi imprevedibili od a soste inevitabili. Dipende tutto dagli Artisti, dalla Cultura, dal Pensiero. A noi è dato il solo privilegio di fare, in funzione di un futuro che resta indefinibile ma ineluttabile. Il momento è difficile e non permette di inquadrare bene quel che sarà del nostro pianeta, spero solo in una classe dirigente del futuro che sia responsabile, oppure, se deve essere una fine della Cultura, che sia drastica: una classe mondiale di microcefali che faccia tabula rasa (permettimi di scherzare… a volte mi sembra che qualcosa del genere stia accadendo veramente).
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
UP: Dunque… sai che ogni scarafone è bello eccetera eccetera… anche se io francamente tendo a non riascoltare molto i miei lavori. A volte dopo molti anni lo faccio. Certo Breaths and Whispers, il cd in cui omaggiavo Skrjabin in duo con Lee Konitz, mi è rimasto. Però anche Ellissi in trio con Maier e Dani, e con Tim Berne come ospite… Quest’ultimo lavoro è per me assai importante e significativo, mi sta regalando molte conferme: dovrò attendere ancora tempo e chissà…
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
UP: Ci sono maestri che incontriamo nelle aule ed altri che invece ci comunicano da luoghi semplici, vivono una vita anonima e non sanno di lasciare un segno. A volte invece subiamo il fascino di personalità che in un modo o nell’altro entrano nel nostro immaginario e ci restano. Un paio di esempi che rasentano l’assurdo (amo lo scrittore e drammaturgo Samuel Beckett!): io credo che in alcune occasioni, di tanto in tanto, mi escano gesti od espressioni che condurrei a certe performance di Giorgio Bracardi, un comico che ho sempre stimato; oppure mi capita di pensare, e specifico “mentre sono al pianoforte”, a Patrick Bateman, il protagonista del romanzo American Psycho di Ellis, un libro che talvolta consiglio a certi studenti che mostrino blocchi o resistenze nei confronti dell’improvvisazione, un discorso lungo che andrebbe però affrontato a parte…
JC: Ma torniamo all’argomento dei Maestri…
UP: Ho già citato colui che fu il mio insegnante di Pianoforte, al quale sarò sempre grato. Jazzisticamente mi sono formato invece come autodidatta, apprendendo spesso “sul palco” ed approfondendo in un secondo tempo a casa. Pertanto tutti i musicisti con i quali ho suonato mi hanno insegnato qualcosa, ed a tutti sono per questo riconoscente. Un capitolo a parte invece riguarda i Maestri, coloro che ti parlano di valori assoluti, di Idee, del Pensiero, anche attraverso semplici frasi o azioni portatrici di una simbologia che andrà poco a poco a modificare la tua visione del mondo, della vita, dell’Arte. Parlavo prima della mia infanzia oltrepadana. A Casteggio abitavo sopra ad un mobilificio, presso il quale lavorava un falegname (il suo nome era Antonio Porcellana). Era una persona molto riservata, faceva una vita piuttosto ritirata che si svolgeva tra il laboratorio e la casa. Tutti i giorni quel tragitto di duecento metri… eppure noi bambini eravamo spesso attorno a lui perché amava raccontare e lo faceva con un piglio istrionico. Immerso tra stoffe, sedie da restaurare, attrezzi e stufa a legna si esprimeva con abilità da attore ed era quella la prima forma di teatro a cui assistevo.
JC: Incredibile, davvero…
UP: Ma c’è di più: lui ci raccontava opere letterarie, ad esempio un libro come I quarantanove racconti di Ernest Hemingway!… Lui raccontava Hemingway a noi bambini, negli anni Sessanta. E accadde così che io, dopo i libri per ragazzi, decisi di leggere gli originali di quelle storie e quindi mi feci regalare I quarantanove racconti di Hemingway, a cui seguirono i libri d’autore che trovavo in casa – mio padre era un lettore accanito. In quel luogo pervaso dall’odore del legno – che ancora mi attira – iniziava per me un percorso che sarebbe diventato una parte considerevole ed imprescindibile del mio futuro “lavoro”. Come non chiamare Maestro un uomo simile?
JC: E poi, dopo il “maestro” falegname?
UP: Successivamente ho trovato nel cammino altre personalità che mi sono state da guida, un pittore, Walter Lazzaro, pupillo di Giorgio De Chirico, che conobbi e frequentai nel suo studio all’inizio di Via Brera a Milano (ero poco più che ventenne, poeta in erba) e dal quale appresi a leggere i quadri. Poi il mio amico Milo De Angelis, uno dei più grandi Poeti italiani di oggi. Ricordo quando a volte ci riunivamo nella sua casa di Via Rosales o in Viale Majno (sempre a Milano) per leggere i testi appena elaborati, ragionare sulla composizione del verso, o sui poeti russi, o salendo su battelli ebbri per tracciare differenti definizioni alle cose.
JC: Altri tuoi “maestri”?
UP: Altri potrei citarne, mi ci vorrebbe troppo spazio, ne aggiungo ancora uno che non può essere tralasciato, e che non ho mai avuto la fortuna di incontrare: l’artista tedesco Joseph Beuys, colui che ha unito Arte e Vita e sulla cui opera ultima (Difesa della Natura) lavoro da anni, con il concerto/performance che ho intitolato “Beuys Voice”, replicato molte volte ormai tra Italia ed Europa (con l’ausilio dell’ultimo video dell’artista) e divenuto recentemente libro e cd (presentati lo scorso 13 maggio 2011 al Kunsthaus di Zurigo). Beuys è stato un artista/sciamano che attraverso opere, disegni, discorsi, azioni e performance di forte carica simbolica ha parlato alle persone, nella convinzione che in ognuno risieda una capacità creativa e che la Cultura e l’Arte siano il vero “Capitale” di una società
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
UP: Non c’è un momento particolare, ma una situazione che si ripete. Mi sono trovato molte volte sul palco con musicisti o artisti che in gioventù erano per me figure di riferimento (ovvero “i miei miti”). Non solo americani o stranieri, ma anche italiani: io non sono esterofilo. In quelle occasioni mi capita di entrare in scena, sedermi al pianoforte e, guardando chi è con me sul palco, scoprire che veramente “ci sono io lì”: è una sensazione splendida.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
UP: Amo collaborare con persone che condividano con me idee artistiche, ma che abbiano anche una carica umana senza la quale lo stare su un palco o in una sala d’incisione risulta essere un’azione compiuta a metà, quando non un atto di semplice convenienza. Ognuno di noi, soprattutto agli inizi dell’attività, deve sicuramente vivere esperienze che possono essere anche poco piacevoli o gratificanti, ma ciò fa parte della crescita personale. Passata questa fase, a volte anche lunga, penso che ognuno possa o addirittura debba inevitabilmente compiere delle scelte. Anche questa seconda fase fa parte di una crescita artistica ulteriore. Credo infatti che un rapporto umano solido non possa che favorire anche l’intesa sul set, così come può valere anche il contrario, ovvero che nasca una grande amicizia da un’intesa artistica nata occasionalmente sul palco. Questo mi è accaduto, per fare un esempio, con Stefano Benni.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
UP: A parte la promozione di A dawn will come, ho diversi progetti in atto. Prossimamente registrerò il mio lavoro su Jacques Brel per la My Favorite di Patrizio Romano. La realizzerò con diversi organici. Ho da poco iniziato a provare (con grande entusiasmo reciproco) in duo con il giovane e talentuoso sassofonista Mattia Cigalini. Usciremo in autunno e devo dire che quanto stiamo provando potrebbe essere motivo di interesse. Sicuramente noi ci stiamo molto credendo e divertendo. Insieme a Fabrizio Sferra ho poi un progetto che ancora attende di partire, ma sul quale siamo assolutamente convinti. C’è anche un’idea di collaborazione con Mario Brunello, ci scambiamo idee e proposte e forse quanto prima approderemo alla definizione del programma. Infine dovrò terminare in galleria l’operazione artistica iniziata durante la registrazione di A dawn will come.