Discograph – 6105705 – 2011
Lionel Belmondo: sax tenore, sax soprano
Stéphane Belmondo: tromba, bugle
Philippe Gauthier: flauto, flauto alto
Bernard Burgun: corno inglese
Cécile Hardouin: fagotto
Jerôme Voisin: clarinetto, clarino basso
François Christin: corno
Bastien Stil: tuba
Laurent Fickelson: pianoforte, piano Fender Rhodes
Sylvain Romano: contrabbasso, melodica
Dré Pallemaerts: batteria
Evento che ha guadagnato intensa sensazione oltralpe, pur non rappresentandovi una formula esclusiva, Hymne du Soleil è un’orchestra jazz il cui sofisticato soundscape dichiara il profondo retaggio novecentesco investito in un elaborato mélange che del jazz filtra le componenti più speculative ben disincarnandole dalle quote energeticamente più dense e d’impatto.
Motori efficaci della suggestiva operazione, oltre al titolare troviamo l’altrettanto sperimentato fratello Stéphane, di eclettica militanza e la cui recente incisione in quartetto riscuote seguito e speciale attenzione; di suo, il sassofonista Lionel è un forte praticante dei melodisti jazz quali Evans o Petrucciani (qui omaggiati), della sintassi della golden age, coltivati non in contraddizione con le più originali voci di svolta della musica colta del secolo scorso.
“Era un mio sogno infantile riuscire a metter insieme i due universi, il sogno di suonare senza che si potesse dire: È jazz – è classico” – in realtà il superamento di genere è quanto di più auspicabile, di regola, e nel praticare questa formula, se non universale, quanto meno e con diritto di raffinato orchestral-combo, Belmondo non si limiterà a suscitare l’interesse dei più tradizionali e placidi estimatori dell’orchestrone e dei più convenzionali repertori, ma più in generale dei molti che credono in un progressivo rimodellamento della forma, improntata ad una classe sapiente e ad una musicalità evolutiva e curiosa.
Aprendosi nei sobri chiarori gospel della fauréiana Cigne sur l’eau, che espone la prima uscita solistica di Stéphane, la successione progredisce aggraziando di nuances débussyane la Story Line di Bill Evans, resa con interrogative e compattamente fluenti forme cameristiche. Ripresa di più esplicite morfologie jazz nella sorniona 3-2-3 di Lionel, aprendosi allo stupore che ridà voce alla Love letter di un sereno Petrucciani, laddove il criptico minimalismo di Erik Satie si carica di tinte oscure e misteriche, e l’atonalità severa di un inatteso Arnold Schoenberg (In diesen Wintertagen) si apre ad una pur sommessa e lunare cantabilità.
Le forme dei maestri del passato non sono qui rivoltate, ancor meno rivoluzionate, da aggressioni frontali e polemiche, e in evidente alternativa agli apporti revisionisti e vigorosamente iconoclasti della ludica serialità di un Uri Caine, ad esempio, l’ensemble incarna piuttosto un più sensibile punto d’incontro e bilanciamento tra una riveduta classicità e le forme di jazz orchestrale alleggerito dall’accademia.
Le correnti “ascensionali” di spirito e forma coltraniani sono captate nelle loro pulsazioni più sottili, e lungo il non dormiente corso fluviale dell’orchestra, che non mira all’effetto epidermico in termini di liberazione energetica e cromatica, si apprezzeranno certamente le assortite preziosità speziate del corno inglese e del flauto, oltre al recupero del sassofono o del trombone nelle loro fisiologia orchestrale, in una sintassi coinvolgente e dominata da coerente eleganza.
Astenendoci da considerazioni (seppur pertinenti) sulla determinazione di un “idioma locale” in jazz, se falangi parallele, come l’Orchestre Sentimental di un Franck Tortiller, hanno dato una grande lezione di turbinosa vigoria danzante, l’apparentemente più composto Hymne du Soleil (che ha appena completato una trilogia e allargato le prospettive con il Coro Nazionale Léttone nel fresco Des clairières dans le ciel), giusto al punto d’incrocio tra il tramonto della classicità e l’alba di un certo sentire jazz c’intrattiene con composta eloquenza in un ibrido felice che seduce per gusto e speciale naturalità.