Foto: L.Rinaldesi
Slideshow. Giorgio Li Calzi.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Giorgio Li Calzi: Organum, il mio ultimo album è uscito a marzo 2011. È un mix tra minimalismo, ambient, jazz ed elettronica in forma di rock. Ho lavorato con i musicisti con cui suono da anni, Roberto Cecchetto e Matteo Salvadori alle chitarre, Alessandro Maiorino al basso, Enzo Zirilli alla batteria. E anche con una serie di ospiti virtuali, cioè che ho conosciuto sulla rete, alcuni su Myspace, come Hayley Alker, cantautrice di Portsmouth, altri che già conoscevo e stimavo artisticamente, come Marconi Union (Manchester), Retina.it (Pompei), Douglas Benford aka si-cut.db (Londra), Thomas Leer (Glasgow). Ed è un album in formato fisico (CD) e digitale (Wav e mp3), ha una normale distribuzione, ma si può acquistare anche sul sito della mia neonata etichetta: www.fonosintesi.com
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
GLC: Let it be nel juke-box della spiaggia a Spotorno nel 1970, avevo 5 anni.
JC: Cos’è per te il jazz?
GLC: Jazz vuole dire libertà di suonare a modo mio e di improvvisare seguendo un percorso che mi creo apposta per il mio modo di essere. Tralascerei la definizione classica di jazz, intesa come musica afro-americana del XX secolo, che è certo importantissima e che va conosciuta, specie se ti presenti come “jazzista”. Però il jazzista dev’essere oggi inserito in un contesto contingente di tempi e spazi geografici. Io personalmente non sono interessato a suonare gli standard di Miles Davis o Freddie Hubbard, o a cercare di imitarne il linguaggio musicale e artistico: sono nato in Italia, e in un periodo storico successivo. Però li conosco, e sicuramente ho fatto tesoro della loro lezione, e quindi, ad esempio Miles è stato per me uno dei punti di partenza per la mia musica. Ma il jazz è per me anche libertà di fare musica senza nessun tipo di condizionamento, di business o di genere, uscire dagli schemi e dare un pugno nello stomaco agli ascoltatori, anche perché gli ascoltatori non devono solo ascoltare tappezzerie musicali, ma anche essere sorpresi e a volte scossi. Come vedere un film di Von Trier o uno spettacolo di Romeo Castellucci.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
GLC: Io ho sempre dovuto crearmi uno spazio molto “personale” nella vita quotidiana, e questo sin da bambino: ad esempio nella scrittura, nella scuola, nella musica e così anche nel lavoro. Ovvio, mi sono adattato agli eventi in cui mi imbattevo, ma per vivere meglio, ho dovuto far prevalere nella vita di tutti i giorni, la mia modalità. E il jazz, come ti dicevo, è per me una grossa forma di libertà-ovviamente da inserire in un contesto di regole, giusto per creare una forma. Però, a differenza di un trombettista classico, che magari deve suonare anche solo una nota bisacuta all’interno di una sinfonia, io posso permettermi di entrare con la nota che voglio, e quando voglio. E poi, certamente, il jazz mi piace: Chet Baker, Monk, Dexter Gordon, Paul Desmond, Bill Evans, Satchmo, Duke Ellington, Coltrane, Don Cherry, Arnett Cobb, Billie Holiday…..
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
GLC: Si, appunto se contestualizzata in un tempo e in uno spazio. Aveva un senso Shirley Horn, e ha un senso Magic Malik. Se invece vogliamo fare business o “musica classica”, facciamo pure i Cd stile Blue Note, che tanto Blue Note non saranno mai, perché tanto nessuno suonerà mai come suonava Herbie Hancock nel 1964. Poi, non voglio essere un talebano al contrario, perché magari troverò sicuramente qualcuno che suonerà alla Hancock, meglio di Hancock, e mi emozionerà sicuramente. ma per me questo è solo un divertissement da ascoltatore.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
GLC: Emozioni, libertà, volo, andare sugli sci o in vela, libertà.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
GLC: Siccome è una musica tendenzialmente di maniera (e meno male che esistono artisti come Magic Malik) si può sperare in una maggiore ricerca di tipo estetico, perché in fondo la maggior parte dei jazzisti non eccelle in quanto a estetica.
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
GLC: L’ultimo, ovviamente, Organum. Dico ovviamente, per due motivi, cioè se mi chiedi una mia foto, te ne do una recente, perchè mi rappresenta meglio rispetto a una di 5 anni fa. E poi anche perchè non sono un nostalgico.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
GLC: Un maestro diretto è stato Enrico Rava. Enrico non è solo un musicista ma anche un intellettuale, una testa pensante, e un grande inventore della musica. E poi, come tutti i grandi del jazz, i suoi soli sono le estensioni dei suoi temi, e viceversa. Esattamente come Miles, Parker e Coltrane. Considero maestri anche i musicisti con cui suono e ho suonato. E penso anch’io di essere-essere stato un maestro, perché nella musica si riceve e si dà.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
GLC: Tantissimi, ovviamente. Sicuramente quello di poter suonare con i musicisti che ho sempre scelto, indipendentemente da scelte di calcolo. È anche molto bello per me, che principalmente amo produrre musica, ricevere via web la risposta del musicista che contribuisce al mio pezzo. È come per un bambino scartare il dono di natale.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
GLC: Quelli che conosco, perché mi danno sicurezza, ma anche quelli che non conosco o che sono totalmente distanti da me, perché mi insegnano qualcosa di nuovo e mi danno lo scossone della “prima volta”.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
GLC: Un nuovo album con un quartetto con cui suono da anni, ma molto avanti tecnologicamente e radicale nell’estetica.