Richard Cook: Blue Note Records, La biografia

Foto: Copertina del volume





Richard Cook: Blue Note Records, La biografia.

Minimum Fax – 2011.


New York, 1939. Nasce una delle etichette più importanti della storia del jazz. Forse quella che più di tutte è diventata un “oggetto” di culto. Creata da due tedeschi espatriati, Alfred Lion e Frank Wolff, la casa discografica documenterà attraverso i suoi dischi lo sviluppo e i cambiamenti avvenuti nel jazz a partire dagli anni della sua fondazione fino, con alcune interruzioni, ai giorni nostri. Richard Cook, giornalista accreditato e di spessore, scomparso troppo precocemente, ha pubblicato la biografia nel 2001.


Il libro ha visto la luce in Italia, tradotto, nel maggio 2011. Nonostante la differenza temporale, il testo rimane fondamentale per valore narrativo e documentaristico. Si evince dalla lettura delle prime pagine del libro che gli esordi della casa discografica furono legati a un jazz revival come quello suonato da Pete Johnson, Meade Lux Lewis, Albert Ammons, Sidney Bechet, ed altri di scuola Dixieland. Cook mette in risalto i rapporti commerciali intrattenuti tra Lion e Wolff con il patron della Commodore Milton Gabler. Racconta la “crisi” delle copertine, e cioè il passaggio dall’anonimo sacchetto che conteneva il 78 giri, all’avvento del long playing con le sue esigenze di marketing. Da qui l’importanza di arruolare grafici all’altezza della linea Blue Note. Anche in questo campo la casa discografica farà tendenza, grazie soprattutto alle fotografie che Wolff scattava durante le sedute e che venivano inserite nelle copertine dei dischi a testimonianza del lavoro svolto. Queste erano corredate da note al disco scritte da affermati critici di jazz. Si legge della scommessa Thelonious Monk, che qui viene registrato per la prima volta in veste di leader, e della sua valenza futura; e poi i grandi di quel momento, messi sotto contratto, come Bud Powell, Art Blakey, Miles Davis. A venire John Coltrane, Sonny Rollins, e la fase hard bop con Hank Mobley, Horace Silver, Jimmy Smith e Lee Morgan su tutti. L’intuizione di puntare su quel mostro sacro che è Rudy Van Gelder, il genio del suono. Colui che definirà una precisa e riconoscibile linea sonora di tutte le registrazioni della Blue Note.


È interessante leggere come il management, e cioè Alfred Lion, si trovasse spesso nel dubbio amletico, e anche economico, di voler e non poter trasformare un’etichetta indipendente di grandi potenzialità in una major. Il rischio di fare la fine della rana incombeva tutti i giorni, ma questo non gli evitava di piazzare negli anni sessanta grandi registrazioni come quelle di Shorter, Rivers, Hanckock, Young, Henderson, Hill, e così via. Purtroppo il declino era alle porte. Nel 1967 Lion lascia. Le redini restano in mano a Wolff fino al 1971, anno in cui morirà d’infarto. Il rock fa incetta di pubblico e soldi. La crisi del jazz è latente e sotto gli occhi di tutti. Le vendite calano a vista d’occhio e la Blue Note decide di fermarsi il 2 novembre 1979, con l’ultima registrazione di Horace Silver. Nel frattempo, un fan sfegatato e uomo dell’ambiente discografico, Michael Cuscuna, cerca di ricomporre i resti della label tentando anche delle indovinate operazioni commerciali. Sono anni travagliati. La Blue Note passa sotto il controllo della EMI.


Dopo alcuni anni di riluttanza e indecisioni sul futuro della casa discografica, la direzione della major decide di affidarne la rinascita a Bruce Landvall, uomo del mestiere e di grande competenza. Siamo negli anni ottanta e il rilancio è ormai avviato. Arrivano Cassandra Wilson, Diana Reeves, John Scofield, Wynton Marsalis, Joe Lovano, Greg Osby e la pluri-premiata Norah Jones. Il resto è storia dei nostri giorni.