Biagio Coppa – Antagonisti Androgeni

Biagio Coppa - Antagonisti Androgeni

No Flight Records – NFR S02 – 2010




Biagio Coppa: sax tenore

Nate Wooley: tromba

Cory Smythe: pianoforte

Trevor Dunn: contrabbasso

Tyshawn Sorey: batteria






Titolazione dalle provocazioni giovaniliste e trans-gender, Antagonisti Andogeni è una tonica immersione entro il jazz dalla memoria e dalle energie pluri-generazionali, e che in termini nient’affatto presenzialisti, ancor meno banali, s’imbeve positivamente della location newyorkese nonché dell’intruppamento alla pari di locali voci variamente sperimentate (non ci si può attender poco da nomi ad elevato peso specifico quali Tyshawn Sorey o Nate Wooley, tra gli altri). Quanto all’intraprendente animatore Biagio Coppa, uso a rappresentarsi nell’almeno quadruplice veste di fiatista-compositore-direttore-educatore, vi è una particolare sensibilità verso la dottrina M-Base, coagulatasi intorno a nomi di spessore dell’area chicagoana, sintonizzandosi anche sui parallelismi e le convergenze di un certo idioma afro-americano con le forme avanguardistiche del Novecento.


In filigrana, tenuto conto delle istanze nervose e trans-free, palesemente qui domina l’attenzione verso le più influenti voci della golden age d’oltreoceano, mentre all’ascolto l’andamento si dipana entro quadrature e obliquità classicheggianti (ma non troppo), elaborando trasversalità atmosferiche e formali (calandosi dalle plaghe misteriche di Antagonisti Androgeni 1 ai lirismi pianistici notturni e scheggiati in First Come, First Served).


La plastica palette del contrabbasso di Dunn e il drumming propulsivo e ricco di interpunzioni di Sorey cementano non senza attitudini melodiche e forte venatura solistica le arguzie del piano muta-forma di Cory Smythe nel suo fertile e drammatico interscambio con l’enzimatico, bruciante ottone di Wooley, dovendo tributare grande e appagante presenza alla voce dell’ancia di Coppa, abile ad alitare e sostenere una tensione “importante” sul versante della perfomance, facendo propria, in senso estetico e compositivo, la lunga focale di campo e le lungimiranti strategie dei profetici Davis, Coltrane, Ornette Coleman (ma non potendo tacere di quello Steve Coleman che è tra i più diretti ispiratori) che il quintetto elabora senza passività di forma né carenze in tensione e sostanza, in un’esperienza di piena vitalità che scuoterà dal sonno dell’abitudine l’orecchio addestrato dalle formalità auto-ripetitive. Un colpo alla botte risonante dell’innovazione (di fatto amministrata senza pose arrischiate) ed uno al cerchio anzi alla quadratura della forma jazz – quella più forte e condivisibile.