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Slideshow. Roberto C. Colombo.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Roberto C. Colombo: L’ultimo a mio nome ha per titolo Lorsque Django jouait. Si tratta di un CD che ho registrato in duo con mio padre per celebrare il centesimo anniversario della nascita di Django Reinhardt (2010). Come suggerisce il titolo, abbiamo voluto evitare di suonare il repertorio ormai inflazionato di Django, preferendo evocarne la figura attraverso l’interpretazione di brani scritti da chitarristi coevi (come il fratello Joseph, gli italiani Henri Crolla e Luciano Zuccheri, i gitani Baro, Matelo e Sarane Ferret e altri) che hanno condiviso con lui l’idea di un’estetica non americana del jazz.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
RC: Non saprei… Mi ricordo che uno dei primi concerti a cui ho assistito, da bambino, aveva quale protagonista il clarinettista Albert Nicholas. Allora mi addormentai, ma pochi anni dopo (all’età di dodici anni) assistevo a concerti dell’Art Ensemble Of Chicago, di Ornette Coleman, di Dollar Brand…
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
RC: Tradizione di famiglia… E, naturalmente, la passione che è sbocciata fin da bambino.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
RC: Sì! E trovo scorretto usarla per indicare ciò che jazz non è (come accade in molti festival contemporanei), solo perché veicola l’idea di “musica impegnata”.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
RC: Per me è la musica d’arte di estrazione popolare. Ed è una straordinaria forma di espressione individuale.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
RC: Libertà, indipendenza, fantasia, bellezza, pace.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
RC: Penso che la funzione del jazz, oggi, sia eminentemente culturale: vale a dire conservare, rinnovandolo incessantemente, un patrimonio di idee musicali che rischia ogni giorno di soccombere sotto il peso della musica commerciale.
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
RC: Potrei dire quello registrato dal vivo nel corso di una tournée con Bob Wilber e Kenny Davern: una sorta di edizione italiana del Soprano Summit.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
RC: Nella musica mio padre, cioè Egidio Colombo, Bob Wilber e Jim Hall. Per la mia formazione culturale devo molto ad un mio zio. Per quanto riguarda i maestri di vita, sono tante le persone da cui ho imparato, a cominciare, naturalmente, dai miei genitori.
JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
RC: Il periodo in cui mi capitava spesso di accompagnare musicisti americani dell’area “mainstream” – come i già citati Wilber e Davern, Scott Hamilton, George Masso, Ralph Sutton, Bucky Pizzarelli e via dicendo.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare
RC: Sono i musicisti sinceri, veramente appassionati e quindi preparati anche dal punto di vista culturale e non solo tecnico. Coloro con i quali sia possibile condividere un progetto, insomma.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
RC: Sto progettando di registrare, con il mio quartetto Stringology, buona parte dei pezzi che ho composto negli ultimi dieci anni. Molti di questi sono dedicati ai filosofi il cui pensiero mi ha maggiormente influenzato. Potrebbe uscirne un disco interessante, che sperimenta la possibilità di un connubio tra jazz e filosofia…