Sinikka Langeland – The Land that is Not

Sinikka Langeland - The Land that is Not

ECM Records – ECM 2210 – 2011




Sinikka Langeland: kantele, voce

Arve Henriksen: tromba

Trygve Seim: sassofoni

Anders Jormin: contrabbasso

Markku Ounaskari: batteria






Il grande Nord, e non apparirà superfluo tornare a decantarne lo speciale e semi-incontaminato mix tra potente natura, retaggio fiabesco e dimensione umana, incrocia con naturalezza apparentemente spregiudicata l’approccio tecnologico e l’apertura stilistica estrema: tutto ciò non esaurisce, ma in buona parte probabilmente argomenta la genesi della speciale avanguardia che da alcuni decenni segna in area scandinava la progressione di un jazz dai suoi segni affatto peculiari. A latere dei suoi enormi contributi all’evoluzione del jazz europeo (ma probabilmente planetario) si pone un laboratorio sempre vitale che muovendo da quegli elementi considerati in apertura prosegue i suoi elaborati creativi lungo frange stilisticamente non sempre d’immediata decifrabilità. Cosicché da quella “libera arena” che variamente ha considerato impegnati i Bugge Wesseltoft, Mari Boine, Lena Willemark, Christian Wallumrød, Chiaroscuro fra i tantissimi e vari contributi (non volendo omettere certe frange Rune Grammofon e il Garbarek almeno di Rosensfole o All those born with wings) l’elemento tradizione-retaggio si è visto variamente germinare entro variamente intese forme evolutive.


Rimane piuttosto personale il percorso creativo di Sinikka Langeland, che oltre alla diffusione del tradizionale salterio kantele, persiste con pazienza nella costruzione della sua discografia che, nella dozzina di uscite ad oggi, ha mostrato sensibilità e cure per la materia tradizionale ma cercando anche una propria miscela, discostatasi dall’originale pop etno-elettrico segnato in Runoja (per Grappa Records, 2002) con l’immissione entro una forte e personale corrente etno-jazz svelata nell’originale Starflowers (2007, prima uscita ECM) sorprendeva per la disinvolta metamorfosi del cantato favolistico a rapida evoluzione verso forme jazz imbevute non solo dei più significativi contributi morfologici locali, ma autentica lezione di stile operando una sintesi apparentemente spericolata (vuoi: improbabile) quanto convincente per coraggioso ed ineffabile fascino.


Naturalmente, anche in questo caso si esita in materiale di decifrabilità non sempre immediata, ma Langeland persiste in un calcolato e intelligente rischio con una metodicità atipica ma insieme spontanea, che da esposizioni rudimentali e gentili vede in pochi tratti erompere la melodia, potente e naturale, come grandiosamente e mirabilmente svetta in movimenti di coinvolgente danza quali What is tomorrow? o la vivacizzazione dei colori del giorno, immediatamente squillanti come in Triumph of Being. Ancora una volta attingendo a preziosi materiali poetici del primo ‘900, rimane difficile peraltro rendere ai nostri canoni sensitivi la valenza divinatoria e il fragile segno deviante di Lyckokatt/Lucky Cat: “Gatto Fortunato, Gatto fortunato, fa’ le fusa e dimmi un po’ di più del mio futuro!” – è però questo un piccolo e conciso exploit di microingegneria fusion, e la canzone intima e raccolta assume immediata e forte strutturazione in una forma bop sui generis, fulminea e sferzante.


L’invariata line-up strumentale si rinvigorisce intatta nel suo originale soundscape, traendo forte carica dalla tromba del ritrovato Arve Henriksen, ormai nuova star dello strumento, nella sua visone rorida d’umori d’Oriente e segni dal futuro: qui ben più distaccato dalla seminale impronta di Jon Hassel, ma sempre risonante di bagliori alla Don Cherry, il solista ha elaborato un linguaggio proprio modellante lo strumento d’ottone che si piega anche a duttilità flautistiche. Non meno in crescita, la presenza discreta e d’effetto di Trygve Seim lascia sempre risuonare nelle sue venature il crudo metallo del primo Garbarek, ma non ne fa proprie le acidità e durezze del tempo, disponendosi con ancor più disciplina a doppiare Henriksen in coralità unisona nel riff e nell’esposizione melodica, esplicitando poi con linguaggio mirabile per semplicità seduttiva l’intesa con gli arrangiamenti preziosi di Langeland, la cui vocalità di petrosa delicatezza non trova, nella densità consonantica o nelle dissonanze, filtro o ostacolo alla fruizione. La sezione strumentale è di nuovo tonificata dal drumming marziale e duttile, nelle sue tessiture alte, di Markku Ounaskari e dal basso avvolgente e pastoso di Anders Jormin: il rodato quintetto, indugiando su curiose scatole sonore (The river murmurs) o entro pause di dilatazione lirica (It’s the Dream), fanno guadagnare vita a dolci ballate in forma aggraziata e vorticante (Spring in the mountains), liquefacendo melodia, passo e respiri nella compunta e solenne uscita di scena (Slowly the truth dawns) che con mistica semplicità attinge dalle brevi strofe di O. H. Hauge l’orgoglio e l’eternità della dissoluzione nel Tutto.


Già al secondo episodio di abbagliante coerenza stilistica (se si ammette una “serialità” da Starflowers al presente), ma ancora ci sfugge la natura dell’enzima speciale di questa ricetta di aliena naturalezza: pur non mancando di tinte acquerellate, questa musicalità non ambisce (pur traendolo da un certo suo DNA) ad essere falsamente “fiori e dolcetti”, articolandosi in vari momenti su una pietraia cristallina ma priva di durezze che si colma rapidamente di colore freschezza, induce e invoglia al passo, alla sosta e, nell’essenza, alla contemplazione.


Da conoscere.