Slideshow. Cesare Picco

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Slideshow. Cesare Picco.


Jazz Convention: Così, subito a bruciapelo puoi parlarci dei tuoi nuovi impegni discografici e concertistici?


Cesare Picco: Discograficamente sto curando più progetti contemporaneamente. Proprio nei prossimi giorni entrerò in studio in Italia per un nuovo progetto di piano ed elettronica. Per il mercato giapponese, per il 2012 sto lavorando a un progetto in duo con il violoncellista Hajime Mizoguchi. L’attività concertistica ripartirà da gennaio 2012 e precisamente da Calcutta. Sono felicissimo di ritornare in India, avendo già inaugurato il Delhi Jazz Festival la scorsa primavera. Arriverò quindi in Italia a marzo.



JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


CP: È sempre stato nitido: il quinto Concerto Brandeburghese di Bach, ascoltato nei viaggi in auto in Valsesia con la mia famiglia. E per comprendere quale sia stato il reale imprinting di tale musica, ho riscritto a mio modo l’originale di Bach eseguito con la Camerata di Berlino nel 2007 e uscito su disco per l’etichetta tedesca Berlin Classics.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un pianista?


CP: Ho iniziato a quattro anni con mia madre, e non è mai arrivato il giorno in cui mi sono chiesto “e ora che faccio di lavoro?”. Suono da sempre e in maniera naturale il suonare si è trasformato in una professione.



JC: E a scegliere un tipo di sonorità tra jazz, pop, classica e altro ancora?


CP: La curiosità è la molla che mi spinge ad affrontare territori diversi. Come vasi comunicanti, ciò che si elabora in un contesto musicale passa inevitabilmente nel successivo: il risultato è un linguaggio che porta in sé diversi alfabeti musicali.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola musica?


CP: Dovremmo instituire un servizio globale di raccolta differenziata della musica! La maggior parte delle musiche immesse in rete quotidianamente sono scorie: ci vorrebbe un intero pianeta del sistema solare come discarica di dischi, libri e arte inutile prodotta ogni giorno. Chiunque, con un computer, può produrre, vendere e credere alfine di essere un musicista. In questa caduta esponenziale verso il basso, non possono che imporsi fenomeni che fanno proprio leva sulla mancata preparazione di intere generazioni di pubblico. La capacità critica è sparita dal nostro quotidiano.



JC: Ti riferisci all’Italia?


CP: Viviamo in un Paese che, dal dopoguerra, non ha mai pianificato la sua crescita culturale: nelle nostre scuole non la si insegna seriamente e degnamente. Tutto è lasciato al caso, all’opera encomiabile di singoli che lottano dal mattino a sera per tenere aperti teatri, musei, orchestre. Al “sonno della ragione” oggi la musica deve rispondere tornando a “fare male”, a sconvolgere, a porre domande scomode e non a dare continuamente risposte banali.



JC: Ma cos’è per te la musica?


CP: Usando la pratica dell’improvvisazione totale nei concerti lavoro come un compositore in tempo reale. Di conseguenza la Forma musicale ha per me un ruolo fondamentale. Devi essere preciso in quello che dici, puoi anche divagare per un po’, ma poi deve sempre riuscire a tornare a “casa”. Quando decido di affrontare invece pezzi già scritti, il gioco è quello di prenderli sempre da un’angolazione diversa, di trovare ogni volta un qualcosa di nuovo al loro interno. E sopra ogni cosa, per me la musica è crescita spirituale e umana da condividere con qualcuno.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


CP: Il musicista e chi si occupa d’Arte in genere, ha la responsabilità etica di fare con coscienza il proprio mestiere: senza piegarsi, senza svendersi. Ha il compito di tenere alto lo sguardo, di farci vedere il futuro prossimo: di rinnovarsi continuamente, innovando il mondo. Questo hanno fatto i grandi del passato. Penso a Beethoven, all’esempio di rettitudine morale e spirituale che rappresentava per i suoi contemporanei. Penso a Miles Davis che fino all’ultimo giorno della sua vita non ha mai smesso di cercare qualcosa di nuovo.



JC: Ti piace il jazz? Quali musicisti in particolare?


CP: Il linguaggio jazz cambiò i miei orizzonti di pianista in età adolescente: come faccio a non amarlo? Un disco di Bill Evans mi fece capire che c’era altra musica che mi muoveva dentro mondi sconosciuti. Evans, Davis, Jarrett, Coltrane sono, assieme a Bach e Brahms i maestri che continuano a stupirmi e a regalarmi felici notti insonni.



JC: Come pensi che si evolverà la musica del presente e il jazz del futuro?


CP: È facile accettare la corrente di pensiero che, con approccio negativo, afferma che tutto è stato inventato e che ciò che ascoltiamo oggi è solo una rifrazione di ciò che è già avvenuto. Ma forse è proprio questo che dovremmo comprendere a fondo: la musica – l’Arte tout court – è un sapiente gioco di specchi tra passato e futuro. Sta a noi la sapienza di posizionarli bene per riuscire a vedere oltre il nostro presente.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


CP: Il prossimo, of corse. Ogni album è il risultato di un momento particolare della propria vita e ha ragione di essere, nel bene e nel male. Ma se My Room mi ha aperto al mercato giapponese, sono forse più emozionalmente legato a Il tempo di un giorno del 2008, registrato con il sound designer Taketo Gohara. Il concetto di fondo era di comprendere che flusso di musica venisse fuori lasciando accesi i microfoni per ventiquattro ore.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte, nella musica, nella cultura, nella vita?


CP: Tecnicamente, dopo mia madre, ho avuto gli insegnamenti di un’importante famiglia di musicisti vercellesi, i Rosetta, e successivamente, dopo la frequentazione del Liceo Viotti, il mio approccio alla musica è radicalmente cambiato nell’incontro con Don Dante De Stefanis. Con lui passai tre anni fondamentali, tra i tredici e i sedici, nei quali imparai ad affrontare ogni tipo di musica e, come passione e rettitudine morale, fu senz’altro anche un maestro nella vita. Un altro straordinario incontro è stato successivamente quello con Antonio Ballista, esempio di inesauribile curiosità e genio applicato alla musica.



JC: Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


CP: Forse la prima del mio concerto al buio Blind Date nel 2009 al Teatro Smeraldo di Milano. Sold-out per un concerto che prevede la partecipazione attiva di ogni singolo spettatore: il desiderio di superare le proprie paure per andare “oltre”. Questo mi ha emozionato: sapere che il pubblico era desideroso quanto me di sperimentare una via diversa alla musica.



JC: Quali sono i musicisti e gli artisti con cui ami collaborare?


CP: Quelli che antepongono al proprio ego il risultato dell’incontro tra due mondi diversi. La capacità di ascolto vera è la condizione necessaria affinchè una collaborazione abbia un senso. Ne ho avute tante in diversissimi campi e tutte hanno avuto ragione d’essere per me, perché hanno significato arricchimento umano.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


CP: Oltre agli impegni discografici e live imminenti, ho nel cuore il progetto che è nato dopo la tragedia naturale che ha colpito il Giappone il marzo scorso. Con mio grande onore il brano che avevo scritto in memoria delle vittime – Hope At Sunrise – è diventato un contenitore nel quale molti artisti giapponesi hanno voluto suonare, a favore di una raccolta fondi per la Croce Rossa. Nel giugno scorso, il Blue Note di Tokyo ha aperto le porte per tre giorni a questo progetto ed ora stanno già lavorando alla seconda edizione del 2012.